L’occhio assoluto di Massimo Listri alla riscoperta delle origini del Sacro, tra Castellabate e Cava de’ Tirreni

Vittorio Sgarbi

 

Ci voleva un “occhio assoluto” come quello che potremmo senz’altro dire abbia Massimo Listri, riprendendo il concetto di “orecchio assoluto” che si associa in genere all’intuito musicale, per riuscire a raccontare, facendoceli sembrare vivi pur nella loro austera e secolare immobilità e nella loro siderea solitudine, gli spazi architettonici, e non di rado sacri, di Castellabate e di Cava dei Tirreni, legati a doppio filo, quali sono, per l’opera meritoria e santa svolta e propugnata da San Costabile quasi agli albori della nostra civiltà cristiana. È noto infatti che il Santo, primo costruttore del Castello da cui prese poi il nome il paese di Castellabate, crebbe e sviluppò la sua rinomatissima umanità, la sua erudizione, la sua ampissima cultura e il suo appassionato ingegno all’interno dell’Abbazia, camminando tra i suoi silenziosi corridoi, pregando ai piedi dell’altare in marmo, mirabilmente intarsiato, consumando i pasti sotto le ampie e straordinariamente armoniche volte del refettorio. E oggi, quelle volte, quei marmi, le maestose e austere panche in legno della Sala Consiliare, sebbene fatalmente assai diversi da quelli che vide San Costabile perché in gran parte realizzati solo a posteriori, è un fatto che sembrino, tutti, letteralmente rivivere sotto i nostri occhi, pur nella loro adamantina e sacra immobilità, grazie agli scatti di Massimo Listri. 

Listri è, si sa, un creatore di bellezza; un instancabile ricercatore dell’armonia e della bellezza sepolte e sotterrate al di sotto della “crosta”, spesso così ricca di superfetazioni e di contaminazioni da non essere più riconoscibile nel suo nucleo e nel suo scopo originari, di quel che chiamiamo “realtà”. Così sarebbe forse arduo, se non a un occhio “assoluto” come quello di cui è dotato Listri, riconoscere ancora l’armonia nascosta, letteralmente “sacrale”, degli antichi e scarni ambienti dai quali il fotografo è stato in grado di estrarre linee, piani, punti di fuga, giochi di consonanze e armonie formali segrete, poiché, nel disordine formale, culturale e spirituale in cui si è venuta a formare la modernità, il nostro occhio spesso non appare allenato più neppure a riconoscere le metriche segrete e le consonanze nascoste, non solo tra gli elementi architettonici, ma nello stesso paesaggio naturale; essendoci, tutti, chi più chi meno, inevitabilmente rassegnati ad essere governati dal caos e dal sovrapporsi insensato e casuale degli elementi del paesaggio contemporaneo.

Eppure, sotto al caos dell’apparenza regge ancora la volta misteriosa e armoniosa della volontà di Dio. In quella volontà, specchio di quella volontà, sono cresciuti e hanno preso forma gli antichi edifici che ancora oggi resistono al tempo sul territorio di Castellabate e nei borghi limitrofi: l’Abbazia, il Chiostro, l’altare, il refettorio, la Sala consiliare; ma anche le scale, i saloni, i soffitti affrescati dei palazzi nobiliari di Castellabate di cui Listri ha mirabilmente rivelato le perfette e adamantine simmetrie, le ricche tappezzerie, gli affreschi e gli stucchi che ornano i soffitti. Ecco allora che il fotografo, quasi fosse posseduto da un sacro fuoco che lo porta, macchina alla mano, a rivelare, delle architetture, ciò che il tempo aveva finito invece per celare, ci restituisce non già solo la ricca e festosa esteriorità dei luoghi, buona per uno sguardo superficiale, ma anche e soprattutto la loro anima ed essenza più profonda, il loro essere, benché frutto e opera dell’uomo, vero punto di congiunzione e ponte con quel che, nel mondo, è specchio del divino.

Le ampie sale, i luoghi, le scale, gli spazi, solitari e silenti, perfettamente simmetrici quasi fossero progettati e costruiti a somiglianza e a perfezione del Creatore, nelle foto di Massimo Listri tornano a essere quel che furono, e che dovevano giocoforza essere, per chi vi si apprestava ad entrarvi al tempo della loro costruzione, al tempo del Santo e dei santi: luoghi sacri per eccellenza, luoghi di incontro tra l’animo dell’uomo e il suo riflesso divino. Listri, ancora una volta, con il suo occhio assoluto e la calma tranquilla e serena di un vecchio filosofo orientale, riesce a farli tornare a quel punto di congiunzione, a quel luogo di passaggio segreto che li unisce, fino all’eternità, con ciò che non possiamo conoscere se non con l’intuito, la fede, la pietà: l’ambiguo e terribile mistero del divino che si rivela al mondo, e per il mondo. 

L’occhio assoluto di Massimo Listri alla riscoperta delle origini del Sacro, tra Castellabate e Cava de’ Tirreni

 

 

Vittorio Sgarbi

 

 

Ci voleva un “occhio assoluto” come quello che potremmo senz’altro dire abbia Massimo Listri, riprendendo il concetto di “orecchio assoluto” che si associa in genere all’intuito musicale, per riuscire a raccontare, facendoceli sembrare vivi pur nella loro austera e secolare immobilità e nella loro siderea solitudine, gli spazi architettonici, e non di rado sacri, di Castellabate e di Cava dei Tirreni, legati a doppio filo, quali sono, per l’opera meritoria e santa svolta e propugnata da San Costabile quasi agli albori della nostra civiltà cristiana. È noto infatti che il Santo, primo costruttore del Castello da cui prese poi il nome il paese di Castellabate, crebbe e sviluppò la sua rinomatissima umanità, la sua erudizione, la sua ampissima cultura e il suo appassionato ingegno all’interno dell’Abbazia, camminando tra i suoi silenziosi corridoi, pregando ai piedi dell’altare in marmo, mirabilmente intarsiato, consumando i pasti sotto le ampie e straordinariamente armoniche volte del refettorio. E oggi, quelle volte, quei marmi, le maestose e austere panche in legno della Sala Consiliare, sebbene fatalmente assai diversi da quelli che vide San Costabile perché in gran parte realizzati solo a posteriori, è un fatto che sembrino, tutti, letteralmente rivivere sotto i nostri occhi, pur nella loro adamantina e sacra immobilità, grazie agli scatti di Massimo Listri. 

Listri è, si sa, un creatore di bellezza; un instancabile ricercatore dell’armonia e della bellezza sepolte e sotterrate al di sotto della “crosta”, spesso così ricca di superfetazioni e di contaminazioni da non essere più riconoscibile nel suo nucleo e nel suo scopo originari, di quel che chiamiamo “realtà”. Così sarebbe forse arduo, se non a un occhio “assoluto” come quello di cui è dotato Listri, riconoscere ancora l’armonia nascosta, letteralmente “sacrale”, degli antichi e scarni ambienti dai quali il fotografo è stato in grado di estrarre linee, piani, punti di fuga, giochi di consonanze e armonie formali segrete, poiché, nel disordine formale, culturale e spirituale in cui si è venuta a formare la modernità, il nostro occhio spesso non appare allenato più neppure a riconoscere le metriche segrete e le consonanze nascoste, non solo tra gli elementi architettonici, ma nello stesso paesaggio naturale; essendoci, tutti, chi più chi meno, inevitabilmente rassegnati ad essere governati dal caos e dal sovrapporsi insensato e casuale degli elementi del paesaggio contemporaneo.

Eppure, sotto al caos dell’apparenza regge ancora la volta misteriosa e armoniosa della volontà di Dio. In quella volontà, specchio di quella volontà, sono cresciuti e hanno preso forma gli antichi edifici che ancora oggi resistono al tempo sul territorio di Castellabate e nei borghi limitrofi: l’Abbazia, il Chiostro, l’altare, il refettorio, la Sala consiliare; ma anche le scale, i saloni, i soffitti affrescati dei palazzi nobiliari di Castellabate di cui Listri ha mirabilmente rivelato le perfette e adamantine simmetrie, le ricche tappezzerie, gli affreschi e gli stucchi che ornano i soffitti. Ecco allora che il fotografo, quasi fosse posseduto da un sacro fuoco che lo porta, macchina alla mano, a rivelare, delle architetture, ciò che il tempo aveva finito invece per celare, ci restituisce non già solo la ricca e festosa esteriorità dei luoghi, buona per uno sguardo superficiale, ma anche e soprattutto la loro anima ed essenza più profonda, il loro essere, benché frutto e opera dell’uomo, vero punto di congiunzione e ponte con quel che, nel mondo, è specchio del divino.

Le ampie sale, i luoghi, le scale, gli spazi, solitari e silenti, perfettamente simmetrici quasi fossero progettati e costruiti a somiglianza e a perfezione del Creatore, nelle foto di Massimo Listri tornano a essere quel che furono, e che dovevano giocoforza essere, per chi vi si apprestava ad entrarvi al tempo della loro costruzione, al tempo del Santo e dei santi: luoghi sacri per eccellenza, luoghi di incontro tra l’animo dell’uomo e il suo riflesso divino. Listri, ancora una volta, con il suo occhio assoluto e la calma tranquilla e serena di un vecchio filosofo orientale, riesce a farli tornare a quel punto di congiunzione, a quel luogo di passaggio segreto che li unisce, fino all’eternità, con ciò che non possiamo conoscere se non con l’intuito, la fede, la pietà: l’ambiguo e terribile mistero del divino che si rivela al mondo, e per il mondo.

L’occhio assoluto di Massimo Listri alla riscoperta delle origini del Sacro, tra Castellabate e Cava de’ Tirreni

 

 

Vittorio Sgarbi

 

 

Ci voleva un “occhio assoluto” come quello che potremmo senz’altro dire abbia Massimo Listri, riprendendo il concetto di “orecchio assoluto” che si associa in genere all’intuito musicale, per riuscire a raccontare, facendoceli sembrare vivi pur nella loro austera e secolare immobilità e nella loro siderea solitudine, gli spazi architettonici, e non di rado sacri, di Castellabate e di Cava dei Tirreni, legati a doppio filo, quali sono, per l’opera meritoria e santa svolta e propugnata da San Costabile quasi agli albori della nostra civiltà cristiana. È noto infatti che il Santo, primo costruttore del Castello da cui prese poi il nome il paese di Castellabate, crebbe e sviluppò la sua rinomatissima umanità, la sua erudizione, la sua ampissima cultura e il suo appassionato ingegno all’interno dell’Abbazia, camminando tra i suoi silenziosi corridoi, pregando ai piedi dell’altare in marmo, mirabilmente intarsiato, consumando i pasti sotto le ampie e straordinariamente armoniche volte del refettorio. E oggi, quelle volte, quei marmi, le maestose e austere panche in legno della Sala Consiliare, sebbene fatalmente assai diversi da quelli che vide San Costabile perché in gran parte realizzati solo a posteriori, è un fatto che sembrino, tutti, letteralmente rivivere sotto i nostri occhi, pur nella loro adamantina e sacra immobilità, grazie agli scatti di Massimo Listri. 

Listri è, si sa, un creatore di bellezza; un instancabile ricercatore dell’armonia e della bellezza sepolte e sotterrate al di sotto della “crosta”, spesso così ricca di superfetazioni e di contaminazioni da non essere più riconoscibile nel suo nucleo e nel suo scopo originari, di quel che chiamiamo “realtà”. Così sarebbe forse arduo, se non a un occhio “assoluto” come quello di cui è dotato Listri, riconoscere ancora l’armonia nascosta, letteralmente “sacrale”, degli antichi e scarni ambienti dai quali il fotografo è stato in grado di estrarre linee, piani, punti di fuga, giochi di consonanze e armonie formali segrete, poiché, nel disordine formale, culturale e spirituale in cui si è venuta a formare la modernità, il nostro occhio spesso non appare allenato più neppure a riconoscere le metriche segrete e le consonanze nascoste, non solo tra gli elementi architettonici, ma nello stesso paesaggio naturale; essendoci, tutti, chi più chi meno, inevitabilmente rassegnati ad essere governati dal caos e dal sovrapporsi insensato e casuale degli elementi del paesaggio contemporaneo.

Eppure, sotto al caos dell’apparenza regge ancora la volta misteriosa e armoniosa della volontà di Dio. In quella volontà, specchio di quella volontà, sono cresciuti e hanno preso forma gli antichi edifici che ancora oggi resistono al tempo sul territorio di Castellabate e nei borghi limitrofi: l’Abbazia, il Chiostro, l’altare, il refettorio, la Sala consiliare; ma anche le scale, i saloni, i soffitti affrescati dei palazzi nobiliari di Castellabate di cui Listri ha mirabilmente rivelato le perfette e adamantine simmetrie, le ricche tappezzerie, gli affreschi e gli stucchi che ornano i soffitti. Ecco allora che il fotografo, quasi fosse posseduto da un sacro fuoco che lo porta, macchina alla mano, a rivelare, delle architetture, ciò che il tempo aveva finito invece per celare, ci restituisce non già solo la ricca e festosa esteriorità dei luoghi, buona per uno sguardo superficiale, ma anche e soprattutto la loro anima ed essenza più profonda, il loro essere, benché frutto e opera dell’uomo, vero punto di congiunzione e ponte con quel che, nel mondo, è specchio del divino.

Le ampie sale, i luoghi, le scale, gli spazi, solitari e silenti, perfettamente simmetrici quasi fossero progettati e costruiti a somiglianza e a perfezione del Creatore, nelle foto di Massimo Listri tornano a essere quel che furono, e che dovevano giocoforza essere, per chi vi si apprestava ad entrarvi al tempo della loro costruzione, al tempo del Santo e dei santi: luoghi sacri per eccellenza, luoghi di incontro tra l’animo dell’uomo e il suo riflesso divino. Listri, ancora una volta, con il suo occhio assoluto e la calma tranquilla e serena di un vecchio filosofo orientale, riesce a farli tornare a quel punto di congiunzione, a quel luogo di passaggio segreto che li unisce, fino all’eternità, con ciò che non possiamo conoscere se non con l’intuito, la fede, la pietà: l’ambiguo e terribile mistero del divino che si rivela al mondo, e per il mondo.

Vittorio Sgarbi
24 June 2023

Ammiro Massimo Listri, il suo lavoro cosi lucido eppure poetico, incisivo eppure di ampio respiro, rivelatore ma pieno di mistero. Molti anni fa, esattamente nel 2011 quando arrivai a Venezia per dirigere la Fondazione dei Musei Civici dovetti constatare che nei ricchissimi archivi fotografici mancava una documentazione fotografica aggiornata delle nostre sedi museali, i palazzi più belli di Venezia, eredità straordinaria della Serenissima.

Documenti fotografici sono ovviamente presenti in abbondanza, storicamente anche assai rilevanti, affidati a migliaia di lastre e pellicole che ci consentono di conoscere le immense collezioni cittadine, di ripercorrere la storia degli allestimenti che si sono succeduti nel tempo, di rivedere le mostre permanenti e temporanee che hanno arricchito di sapere e nuove scoperte la vita ormai secolare dei nostri musei. Ma uno sguardo unitario e coerente sull'oggi, sulla monumentalità architettonica dei nostri spazi, molti oggetto di importanti recenti restauri, sulla bellezza dei nostri saloni, dei lunghi ariosi porteghi passanti, dei percorsi espositivi sempre capaci di continue soprese, delle centinaia di stanze arredate dove le più belle raccolte d'arte della Città fanno mostra di sé in straordinari contesti, che rianimano la memoria del passato, del bel vivere quotidiano così come delle austerità del potere, tutto questo mancava.

Mancava soprattutto un occhio puntiglioso capace di rivelare l'anima dei luoghi, la densità della luce e del colore che li pervade nella gradualità delle ore del giorno, la leggerezza di quella enfilade di stanze che, inanellate l'una all'altra, caratterizzano la fuga prospettica del Correr o del Palazzo Reale, la maestosa grandezza dei luoghi votati alla cura e alla difesa della Repubblica.

Un occhio colto e sapiente, imbevuto di storia dell'arte, da rinascimento alla metafisica si potrebbe dire tanto è largo il campo dei suoi interessi, ma nello stesso tempo capace di fare una sintesi originalissima di quel proliferare talvolta anche eccessivo di decorazione e architetture dei nostri saloni, di concedere pause e silenzi a frammenti di storia rivelati da elementi magari residuali dell'architettura, un plinto, una mezza colonna, la maestà di una porta, il lumeggiare cangiante di un drappo Fortuny, un vortice di luce che indiscreto si adagia sulle forme tornite di un dio greco rinato sotto lo scalpello di Canova. Uno sguardo eccentrico che veda ciò che altri non vedono, che arretri davanti alla banalità che Venezia e i suoi monumenti spesso inducono a fotografare, che trattenga il respiro prima di inquadrare l'obiettivo, che fermi l'istante perfetto di quell'aura misteriosa che abita nelle nostre stanze.

Massimo Listri è stato per la nostra fondazione quest'occhio, generoso e imprevedibile anche nella modalità del suo operare, in un rapporto di grande semplicità con lo spazio: il suo segreto è racchiuso in gran parte nella luce naturale, che rifugge dalla complicità con gli artifici e le tecnologie troppo sofisticate, sebbene nella postproduzione la sua mano sapiente non disdegni delle messe a fuoco e dei tagli prospettici che appagano appieno il suo desiderio di creare con la fotografia "un'opera d'arte nell'opera d'arte". Da questo suo straordinario occhio sono nate centinaia di immagini che finalmente ci restituiscono, grazie alla sua cifra inconfondibile, un'idea unitaria della molteplicità e della complessità disciplinare che caratterizzano le nostre collezioni e gli spazi espositivi, una restituzione di inedite viste capaci di stupire anche chi, come noi, ogni giorno si confronta con le sale del museo.

 

Gabriella Belli

Gabriella Belli
11 June 2022

Ho guardato spesso le fotografie di Massimo Listri. Le ho studiate, le ho ammirate, le ho rifiutate, riviste, ristudiate. Alla caccia di cosa si celi sotto questa sfolgorante dichiarazione di perfezione. Le immagini di Listri sono una trappola per occhio. Nel massimo del lustro (nomen omen), esse non si esauriscono con la loro nitidezza, con la loro sfacciata precisione del dettaglio, con la loro esibita qualità della luce naturale che tutto inonda, rifrange, rende chiaro. Riguardatele con me,queste foto.

Una inesausta pacatezza dell'occhio: una purezza formale che scaturisce da una precisa collocazione prospettica, una perfetta disposizione dell'ambiente, una corretta impostazione del luogo dal quale guardare, dalla forza di un colpo d'occhio (e non è un caso che questa sia una piccola frase fatta, nel suo caso, densa di significati epistemologici) che abbacina e non può finire al primo battito di ciglio.

Ecco: le immagini di Listri comandano un verbo agli occhi: ri-vedere. Ri-esercitare la facoltà dello sguardo, cacciare in profondità gli occhi, circondare l'esperienza della visione di una ulteriore qualità: la dichiarazione di impossibilità di terminare.Forse, qui, siamo ad uno dei punti chiave, nell'estetica di Listri.

Ho riguardato spesso le fotografie di Massimo Listri. Questa, forse, dovrebbe essere la prima dichiarazione di una qualunque introduzione critica alla sua opera. Sfogliatele, mentalmente, e fisicamente, queste strepitose immagini che squadernano davanti a noi, in questo caso, la nuda, incontrovertibile, verità e bellezza deipiù belli(e significativi) palazzi veneziani. E capirete, che, solo ora, con lo sguardo di Listri, essi ci dicono qualcosa che non solo non sapevamo, ma nemmeno sospettavamo di poter sapere.

Queste insigni prospettive: le architetture dettano e Listri accoglie. Non sbaglia mai dove piazzare, al millimetro, il suo scatto. Noi siamo dentro, per una volta, finalmente, dentro la foto e dentro l'architettura; e questo doppio "dentro" è decisivo per cogliere al meglio il suo lavoro. Ora abbondate dei suoi particolari. Perdete tempo nelle fughe geometriche, indugiate sulle colonne, ammirate il senso di proporzione e armonia che queste foto suggeriscono. Qualcuno mi dirà che sono freddi esercizi di osservazione ostinata? Obiezione respinta. Perché sì, qui c'è la nitidezza e il rigore della fissità architettonica, ma soprattutto, c'è il calore di uno sguardo finalmente (e, quasi impossibilmente) riverginato.

Cosa vuole dire? Che, in molti casi, con le foto di Listri vediamo le cose (i palazzi, le sale, le biblioteche, le wunderkammern) davvero per la prima volta. E non perché ha eliminato il "rumore" di fondo visivo degli ostacoli che ci si frappongono per vedere l'oggetto in sé, alla fin fine, ma perché è solo con quella sua scelta di intrappolare la realtà così come è stata concepita e raramente si mostra a noi che la omaggiamo.

Al nocciolo della questione: le foto di Listri non perdonano intromissioni ma, allo stesso tempo, non perdono un briciolo della loro emozione. E la ridanno a ciò su cui si posa il suo occhio. Listri non è un fotografo ma un disvelatore di "verità", un preciso sismografo del "reale": ed è proprio perché queste immagini sono talmente belle da apparire trasognate che il suo lavoro compie il doppio salto mortale di consegnarci un qualcosa che sempre di più non sappiamo di avere: la predisposizione alla meraviglia.

Ho contemplato spesso le fotografie di Massimo Listri.

E, come in questo caso, in questa sfilata di primedonne architettoniche, storiche e sociali di Venezia, ho ritrovato il sorriso stupefatto di chi finalmente coglie l'essenza delle cose. Che questi palazzi, queste disposizioni di oggetti, fissano un piccolo istante di eternità, che Listri si incarica di catturare e consegnarci, noi piccoli esseri transeunti, distratti e confusi.

Le sue foto ci accompagnano nei luoghi dove non si dà che il bello: e siamo noi a dover partecipare. Loro ci sono, Listri è lì con loro, nostra guida, nostro occhio, nostro maestro di meraviglia.

Stefano Salis

Milano, giugno 2022

 

Stefano Salis
10 June 2022

  “Vero  viaggiatore è soltanto colui che parte per partire”. In queste  parole Charles Baudelaire indica il vasto spazio della fantasia in viaggi immaginari .
Sospinto  da una insaziabile curiosità del mondo , Massimo Listri intende lasciarci testimonianza dei luoghi che ha attraversato ,come se fosse stato fermo .La sua costante nichilistica e’ nella assenza  di vita e nella presenza di atmosfere . Viaggiatore instancabile , Listri attraversa spazi e dimentica . Resta ,di ciò che ha visto, uno stato d’animo . Lo stesso nei siti più lontani ,accomunati da una medesima desolazione. La forza delle immagini  è  tale che noi non condividiamo la conoscenza,  altamente improbabile  degli ambienti che Listri documenta , ma partecipiamo della stessa inquietudine  e degli stessi  turbamenti.
Lo scriveva Leopardi: “ Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è dato loro se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche parte presenti, poichè presenti sono i luoghi ai quali ogni sua memoria si riferisce.”
È proprio così.Iniziamo allora questo viaggio interiore davanti alle fotografie di Listri ,esposte nella chiesa di San Francesco a Civitanova Marche
Nella parte finale de “La migliore offerta”di Giuseppe Tornatore, quella grande stanza, che conteneva centinaia di dipinti allestiti come una quadreria,  appare svuotata , desolata. Quel vuoto non è soltanto fisico, è interiore: è la condizione di perdita di tutto dell’insaziabile collezionista. Massimo Listri conosce bene lo spirito del protagonista del film di Tornatore , perché anche lui e’un collezionista e coltiva l’horror vacui sulle pareti  e sui tavoli della sua bella casa a Firenze. E siccome è un’anima sensibile, esorcizzando il trauma di trovarsi all’improvviso , privato di tutto, nelle stanze vuote della sua casa, inventa un fascinosissimo itinerario di luoghi abbandonati, di stanze in cui non è conservato nulla di notevole .Lo fa senza compiacimento, disarmato.Il suo sguardo è impassibile, lo stesso che ci restituisce sontuosi arredi di grandi palazzi e biblioteche monumentali . Listri non si emoziona né davanti alla ricchezza né davanti alla miseria. Sia nell’una sia nell’altra trova un ordine misterioso,in cui si avverte la mano dell’uomo ,in cio’ che mette e in cio’ che toglie.
Dunque, in queste stanze vuote si sente una presenza,intensa,  ossessiva, rumorosa,di chi le ha attraversate per non tornarvi. Questo e’ l’abbandono :la vita coniugata all’imperfetto,al passato remoto. Li’ ero, li’ sono stato .
Il tema musicale è quello manzoniano :
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta”.
In queste stanze non c’è la vita, c’è stata ,e ne resta una memoria così intensa come un profumo o un odore che non se ne vanno ,restano nelle stoffe e sulle pareti , molto  più durevoli delle esistenze . Listri fotografa soprattutto quello che non si vede : gli stati d’animo , la nostalgia, le memorie perdute . Il suo occhio accarezza ciò che resta, e comunica una inquietudine serena o rasserenata. Abbiamo ammirato le sue impeccabili restituzioni di perfezioni raggiunte , ma sentiamo ancor più struggenti e vivi questi ambienti desolati che parlano al nostro cuore più che alla nostra ragione . Evidente è l’impronta degli interni di Hammershoi ,e non è un’ispirazione ma un’impronta mentale ,  un metodo .
Listri supera soglie , cerca quello che altri vorrebbero escludere. Nella palazzina di Stupinigi oltre una porta ci sono altre stanze, immobili nel tempo , con arredi depositati e raccogliticci. Vengono in mente , anche se non qui riproposte , le stanze di Donnafugata dove Tancredi innamorato si perde con Angelica.
Ma anche , più crudamente , l’appartamento a Parigi dove Marlon Brando rapisce nel suo pensiero tortuoso Maria Schneider . Così questi interni si fanno scenografie per avventure, racconti, inseguimenti, favolose incursioni . In quegli spazi si agita una poesia della solitudine .In una villa abbandonata vicino a Torino o nel Castello di Schwetzingen  in Germania o nel manicomio criminale di Montelupo. Nella desolazione tutti i luoghi si assomigliano . L’abbandono ha una sola intensità perché è il dominio dell’assenza, in uno spazio completamente vuoto, come nelle soffitte di Palazzo Bardini o in una casa risanata nei Sassi di Matera . L’abbandono penetra, come l’odore di stantio, anche nei fascicoli sparsi e disordinati dell’archivio dei migranti a Buenos Aires. Quasi mai l’abbandono è colpevole : è semplicemente la fine di una storia, l’esaurirsi di un ciclo di vita. Ma in qualche caso ci coinvolge,  ce ne sentiamo responsabili ,come a Villa Porfidia a Napoli o a Palazzo D’Avalos, dove la decadenza parla di una grandezza perduta , di incuria , dì trascuratezza. E mentre è raro questo stato d’animo nelle case e nei palazzi , è costante nelle chiese, come una condizione che umilia e diminuisce il sacro , lo mortifica . Non è l’uomo , è Dio che se n’è andato .Parlano una lingua misteriosa le sculture velate nel museo Pio Clementino ai musei vaticani .
Soltanto un interno non parla di vite passate , di desolazione delle cose , di tempo perduto ,  ma di solitudine del presente, di voci che vengono da altre stanze ,come una ansiosa minaccia . È il collegio delle fanciulle a Milano : vuoto, deserto e lindo, ma carico di un dolore muto. Ci sarà ancora, da qualche parte, la vita ?

 

Vittorio Sgarbi
26 June 2021

Il terzo occhio del fotografo e l’avant-coup della religione dell’arte


 

Le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse

Marc Augé


 

Guardo le fotografie scattate da Massimo Listri all’interno degli edifici abbandonati in zona Castello, nei pressi di Firenze, dopo che la Seves ha arrestato la produzione in seguito a una crisi iniziata nel 2006. La periferia di Castello (da cisterne-castellum per la presenza di un acquedotto romano) è conosciuta nel mondo per la presenza in loco di Villa La Petraia, con un giardino all’italiana di perfette proporzioni. Poco distante si trova un’altra villa medicea, quella di Castello detta anche Villa Reale, sede dell’Accademia della Crusca. La villa di proprietà della famiglia Della Stufa, fu acquisita nella seconda metà del XV secolo da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, del ramo ‘popolano’ della famiglia, collezionista e protettore di Botticelli e del giovane Michelangelo. Probabilmente si trovavano in questa villa alcune opere del Filipepi, tra cui la Primavera e la Nascita di Venere. Successivamente alla morte di Lorenzo di Pierfrancesco, vi abitarono Giovanni delle Bande Nere con la moglie Maria Salviati e il loro figlio Cosimo, futuro duca e granduca di Firenze e di Toscana. Distrutta durante l’assedio di Firenze nel 1530, la villa fu ricostruita su progetto di Giorgio Vasari, mentre il giardino risulta disegnato da Niccolò Tribolo. Vi si ammirano ancora oggi opere di grande pregio - la Grotta degli animalidel Tribolo e in parte di Vasari, GennaiooAppenninodell’Ammannati- oltre a una ricca e rara collezioni di gelsomini, limoni, cedri, pampaleoni, e due giardini segreti. 

Da quattro anni, i capannoni industriali ex Seves sono immensamente vuoti. Ora che sto guardando le fotografie di Massimo Listri, scopro che quei luoghi non sono assolutamente vuoti. Al contrario. Mi appaiono ricolmi di bellezza, di una bellezza che è colma di sapienza ( artistica) e di sensibilità ( letteraria). E’ grazie all’occhio di Listri che possiamo vederli artisticamente. Altrimenti sarebbero solo luoghi abbandonati in attesa di recupero funzionale, come si usa dire. Per il fotografo questi edifici abbandonati hanno un’anima. Soprattutto hanno una qualità poetica, che ai suoi occhi è puramente, semplicemente quella dell’arte. Sant’Agostino scriveva che il difetto non è nella cosa guardata ma nell’occhio. Adatto questo pensiero all’occasione. Listri ha l’occhio lustro di un santo. Si badi bene però; il suo non è un occhio innocente. Tutt’altro. Listri guarda attraverso la lente deformante, trasfiguratrice dell’arte. Scopre una pienezza, una ricchezza, laddove noi identifichiamo solo un triste abbandono. Noi ascoltiamo solo il vento fischiare tra le colonne, scivolare lungo le vetrate, sfiorare le capriate. E pensiamo, rammentiamo solo la fine di un’epoca industriosa, veniamo sopraffatti da un sentimento nichilista. Noi guardiamo viziati dalla cronaca. Leggiamo quegli spazi in stretta relazione con il mondo del lavoro, con quanto di funzionale si è svolto all’interno di queste mura, siamo inevitabilmente condizionati dalla crisi industriale e dalla conseguente depressione esistenziale. Il vuoto ci appare pieno di sconforto ora che i macchinari sono spariti assieme alle persone, mentre tutto tace. Il nostro modo di raccontare-raccontarci storie non è quello del fotografo. Non è quello di Listri. Perché Listri fa dell’arte il suo terzo occhio. E con questo terzo occhio guarda il mondo, le cose, perfino le persone. Che si tratti di una biblioteca o di una gipsoteca, di un giardino o di una wunderkammer. E il suo terzo occhi che guida la visione alla scoperta di una epifania locale.

Mi azzardo a dire le cose diversamente. Listri sa ascoltare luoghi che sono poesie. Quelle dei muri dipinti e scrostati, ammuffiti e anneriti; quelle di scale e vetrate, di filari di colonne e soffitti. Il vuoto per lui è una sinfonia di voci recitanti. Per noi, l’edificio è solo un corpo che emette un lamento come se stesse spirando. Listri sa cogliere, invece, immagini poetiche in ogni ambiente. Scova dei paesaggi viventi in luogo di una navata deserta. Inquadra delle prospettive teatrali laddove noi leggiamo a mala pena la triste cronaca di un collasso industriale. Vorrei dire che Listri, all’opposto del tempo perduto in un luogo di lavoro, vede le molte stagioni della vita di questo luogo così lavorato dal tempo e dal lavoro; un luogo estetico –per il suo terzo occhio- con la sua peculiare ricchezza e abbondanza di colori e di forme. Mi spingo oltre. Listri sa come trasformare un edificio morto in una natura morta ( still life), in un bel brano di pittura seicentesca, dove la mela bacata o la foglia accartocciata sono di una straziante bellezza. Ecco, quella stessa bellezza, quella stessa fragranza, Listri la individua con il suo terzo occhio osservando pareti e pilastri in questa basilica industriale. Il punto è forse questo. Lui guarda i luoghi, gli edifici, le stanze, ogni elemento di un architettura con lo stesso sguardo depositato nei dipinti e nelle opere di Cimabue e Burri, di Piero della Francesca e Morandi, di Bernardo Bellotto e De Chirico. Il suo modo di guardare e vedere è diverso dal nostro, perché la sua memoria visiva è diversa dalla nostra. La sua è la memoria incontaminata dell’arte, quella del cinema che ha guardato con gli occhi dell’arte ( Visconti, Antonioni), quella della fotografia che ha guardato con l’occhio dell’arte( Ghirri, Gursky). La nostra memoria, purtroppo, è definitivamente contaminata dalla comunicazione e dell’informazione multimediale. Noi guardiamo con internet. Listri no, guarda e contempla il mondo con il terzo occhio della storia dell’arte. E quando inquadra, non vede quello che noi vediamo perché lui guarda diversamente, contempla altrimenti. Le cose stanno in questo modo. Se lui sceglie un’inquadratura è perché la memoria di un Pontormo o di un Caravaggio, quella di un Manet o di un Pollock, di un El Greco o di un Rothko, di un Kounellis o di Warhol, si è già impossessata del suo pensiero retinico. Possiamo parlare di un guardare avant-coup con la storia dell’arte, quel modo di mettere a fuoco del terzo occhio che si è già prima sintonizzato sulla storia dell’arte. Avant-coup estetico che anticipa lo scatto. Un linguaggio –arte- prima del dopo –fotografia-.

A noi non è dato vedere o percepire oltre il presente, fuori del reale se non con la memoria del reale vissuto. Il fotografo invece sa come vedere l’invisibile del visibile, come rendere nobile o sublime la vista di un luogo abbandonato. Credo che certi luoghi abbandonati dall’uomo possano emettere ancora dei suoni. I muri lo sappiamo parlano. Basta avvicinare l’orecchio come si fa con una conchiglia, e il mare, il muro ti parla. Il fotografo compie lo stesso atto. Ascolta gli spazi vuoti, perché a lui quei luoghi raccontano storie. Spazi che per noi sono pieni di aria e senza respiro; spazi in cui i rumori sono quelli di un topolino che zampetta, di un foglio trascinato da una parte all’altra dell’asfalto, lo scricchiolio di una finestra, il cigolio di una catena, il fischio di uno spiffero. Non per il fotografo. Lui intende altre voci, altri suoni, avverte altri canti in quelle enormi vuote basiliche industriali. 

Se come scrive Marc Augé “le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse”, allora è vero che quello del fotografo che ritrae i luoghi abbandonati, le immense rovine industriali, è anche lo sguardo dell’angelo di Benjiamin che vorrebbe ricomporre l’infranto anche se un vento, il vento del progresso, lo spinge inesorabilmente verso il futuro, in avanti. Cosa significa e cosa ci viene detto quando ascoltiamo questa frase: “ritrarre le rovine”. Avvertiamo nel termine un ritrarsi di qualcosa o di qualcuno, un movimento di ritirata come se qualcuno o qualcosa si allontanasse dal punto d’incontro, dalla vita stessa. Lo sguardo si avvicina a ciò che si va ritirando nel nulla, l’occhio che si prende cura del ricordo ritraendosi fuori dal reale presente. Per Listri ritrarre rovine significa cogliere nel ritrarsi della realtà qualcosa che sta all’arte come il visibile al sole, la sopravvivenza di un passato nel luogo del presente attraverso la presenza dell’arte, di tutta l’arte, che r-esiste a servizio dell’immaginario nell’attimo in cui l’occhio eleva la visione dal piano della realtà verso l’orizzonte della bellezza artistica, la linea d’ombra dell’immortalità sopraggiunta. C’è qualcosa di sacro in queste fotografie. Di una sacralità estetica e poetica. Adesso tutto è compiuto. Il luogo può rinascere. L’attività riprendere. I lavori procedere. Il fotografo ha realizzato il miracolo. Fermare il tempo, restituendo un tempo memorabile al luogo. Il tempo dello sguardo religioso dell’arte, che vede la bellezza dove si potrebbe annidare il peccato, la colpa, la non vita. Se fosse così sarebbe la morte a vincere la partita. Invece no. All’arte è concesso di immergere lo sguardo nell’eternità della bellezza e riportarne con sé l’ombra più luminosa. Listri ha così ribattezzato il luogo. In nome della religione dell’arte.

 

Sergio Risaliti

Sergio Risaliti
29 October 2018

 

Massimo Listri è una figura dalle mille imprendibili valenze. Difficile seguirne le tracce e le progressioni, arduo leggerne gli sviluppi visionari e le passioni- in particolare collezionistiche- siano esse coltivate da sempre o subitanee e violente come marosi in tempesta. La temperatura emotiva, espressa però tramite una freddezza cerea, con distacco da entomologo o da bizantinista, in lui è sempre estrema e implosiva, abbagliante e controversa. Massimo ricorda uno di quei personaggi che emergono dal chiaroscuro caravaggesco dei dipinti di Mathias Stomer, di Bartolomeo Manfredi o Dirck van Baburen. Contorni improvvisamente sferzati da fasci di luce livida e nebulosa, che finalmente si stagliano sul fondo buio e indefinito, posseduto da lemuri evanescenti, da elettriche e fugaci apparizioni.

A Listri- classe 1953, nato sotto il segno dell’acquario- appartengono mille sfumature di esistenza e curiosità, mille evoluzioni e rivoluzioni orbitali. Un carattere sfaccettato e mercuriale, dalle pieghe misteriose e non di rado accese e provocatorie. Fragile, duro e implacabilmente ostinato, scostante e tagliente. Di colpo remissivo e sornione come quei gatti persiani pigri e feroci che tanto ama, Listri è un ossimoro, una totale contraddizione di termini. Il collezionismo, una forma totalizzante di collezionismo, è il suo vero fil rouge nell’attraversare il lavoro e la vita stessa, l’ossatura ermeneutica di una narrazione progressiva e incalzante. Ha raccolto di tutto, proprio di tutto, travasando questo fiume in piena nelle sua Shangri-la fiorentina che a prima vista sembra frutto dell’accumulo di generazioni. Invece è un’opera che si deve interamente a lui, costruita negli anni con una caparbietà e una visionarietà progettuale quotidiana e maniacale.

Demiurgo per immagini- Vittorio Sgarbi lo ha definito il fotografo che inventa la bellezza- , ma anche inventore di interni magnifici, Listri è regista di un teatro traboccante di segni e testimonianze di gusto, di un’osmosi di bizzarre convivenze di epoche e provenienza. Sculture africane Fang e chinoiseries lucchesi rococò, ritratti cinque-sei-settecenteschi e neoclassici, rarities divertenti, giade Song, piatti iranici e mozarabici a lustro, alari bronzei di Caffieri e fotografie di Horst, busti neoclassici di Trentanove, di Bartolini e Adamo Tadolini, accanto a stravaganti santons provenzali e a una serie di lampade ottocentesche in opaline rosa antico fregiate da stemma e iniziali Demidov che provengono dalla celebre villa di Pratolino. Un’orgia di blanc-de-Chine Quianlong, e rami di corallo montati, di bronzi rinascimentali e Edo, di scatole veneziane in pastiglia cinquecentesche. Gli acquarelli di Alexandre Serebriakoff che immortalano le dimore di Charlie de Beistegui, Groussay e Palazzo Labia in festa o gli interni paradigmatici dell’Hôtel Lambert. 

Un valzer oroscopico intrecciato sullo sfondo di un décor gustaviano che rammenta Haga e si miscela a quoti manieristi e barocchi, all’allucinazione della grottesca o a opulente moquettes a ramages Deuxième Empire. I telamoni di Pavlovsk introducono in questa Schatzkammer che sempre sorprende e riesce a catturare anche il visitatore più prevenuto e blasé. Non c’è limite possibile per Massimo Listri, la fantasia deve viaggiare liberamente e sconfinare ovunque quasi anarchica, per poi comunque ritrovare un senso estetico unificante in questo magma incandescente, per raggiungere un’armonia corale che identifichi un cosmo fatto di voci dissonanti e di frammenti apparentemente incongrui. “E’ la storia, il rivelarsi di un’epica o di un passaggio di tempo fondamentale- afferma Listri- ,quello che cerco e che più mi colpisce in ogni singolo elemento di questa trama. E una sorta di fascinazione immediata, di shining, di ”antivedere”. Mi diverte molto sapere, ad esempio, che alcuni dei volumi che possiedo, siglati da insegne araldiche o da ex-libris, talvolta perfino fittamente chiosati da note o commenti, che recano dediche e pensieri, sono appartenuti a papi e cardinali, a re Carlo III di Borbone o a personaggi come Napoleone, all’imperatrice Josephine Beauharnais o alla cognata Carolina Murat, la regina di Napoli dall’esistenza avventurosa e agitata come un feuilleton. Me li immagino intenti alla lettura, mentre li cercano e li accarezzano negli scaffali delle loro biblioteche private. Certi libri mi appaiono come intrisi dall’anima dei proprietari precedenti, sono medium di metempsicosi, latori di un dialogo che per me assume valore di ispirazione incessante.”

L’itinerario nella fotografia, Massimo Listri l’ha intrapreso giovanissimo senza esitazione alcuna, seguendo una vocazione ineluttabile. Ha inizio con una galleria di ritratti in bianco e nero in formato quadrato di grandi personalità del Novecento europeo, da Pasolini a Montale, da René Clair a Federico Zeri, fino all’esteta anglo-fiorentino per eccellenza, il mitico Sir Harold Acton, annidato tra i tesori artistici e le siepi di bosso di Villa La Pietra, sulla Via Bolognese. Acton, lo storiografo del tramonto mediceo dalla vita umbratile e letteraria- non a caso prediligeva fin de race quali il Gran Principe Ferdinando o il debosciato Giangastone, l’ultimo e scandaloso Granduca di Casa Medici, ai primi del XVIII secolo- è il suggello e l’estremo testimone di un perduto e sofisticato universo anglo-americano formatosi dalla metà dell’Ottocento, che aveva trovato il suo luogo d’elezione tra le colline intorno a Firenze. Gli oggetti rari e preziosi, le curiosità e la capziose allegorie delle Wunderkammer nordiche manieriste e barocche, i risvolti psicologici e maniacali che sempre disvela, a un occhio smaliziato, una trama collezionistica, affascinano totalmente Listri, diventando il Leit-Motiv della sua poetica. 

Meditazioni per immagini che si raccontano nella lunga collaborazione con FMR, la rivista paradigmatica fondata dall’amico Franco Maria Ricci. Un obiettivo, quello di Listri, che insieme accarezza sensuale e seziona chirurgicamente l’objet, che cerca di carpire le entità che lo abitano e di catturarne la valenza narrativa e simbolica. Altrove, la composizione si connota in una deriva mistica, da still life ispanico seicentesco, mette in scena una conversazione sospesa e tonale, piana e controllata in apparenza, ma in realtà inquietante ed ambigua.Tirso de Molina, Lope de Vega e Juan de la Cruz si sovrappongono in un medesimo sospeso bodegón, sfuggono ad ogni analisi razionale per trascolorare nel fantastico, nel picaresco, nella metrica folgorante e ieratica di una cabala arcana o di un auto sacramental. La fisiognomica di Franz-Xaver Messerschmidt, il freddo classicismo ’30 di Arno Breker, si risolvono in close-up scevri da ogni giudizio e partecipazione, si trasformano in specchi psicanalitici gravidi di domande e di pulsazioni impossibili da definire. “ Sola garanzia del mistero è l’irripetibile nitore dell’oggetto reale nel quale momentaneamente uno spirito prese dimora “, chiosa Cristina Campo ne “Gli imperdonabili”, più che un libro un compendio di vaticini dalle venature profetiche, un volo a planare su un campo irrazionale e matematico. Settantotto i libri compiuti dal fotografo fiorentino, lungo un’indagine di rappresentazione che spazia liberamente tra arte e décor, tra giardini e grotti incantati e tessili fastosi, tra moda e sensazione, tra negromanzia e fuga archeologica o lapidea. Poi sono venute le architetture e il canone fuggente di una spazialità anche incommensurabile, la fuga concitata e progressiva di prospettive leibniziane, una dentro l’altra come scatole cinesi, il caleidoscopio della decorazione smottata, centrifugata, resa liquida su un’asse ortogonale che diviene mantra. Enfilades di saloni vuoti abitati soltanto dalla memoria di un sontuoso passato, pavimenti marmorei come tappeti volanti e damier escheriani, gallerie scandite da teorie di specchi, da stucchi dorati e sculture di colpo calate in una dimensione azzurrata e metafisica, relitti di arredi e ritmica di volte in camere “di verdura” offuscate dalla polvere, ossidate dall’oblio. Il segno campito di Luis Barragan, il maggiore architetto messicano, più che mai si libra nel colore e nell’astrazione che lo definisce. L’horror vacui di marca coloniale del Brasile imperiale, si miscela al sogno surreale di “L’année derniere à Marienbad, film che Alain Resnais gira nei primi ’60 in una Baviera allegorica e rocaille. Le biblioteche sei- settecentesche di conventi e palazzi mitteleuropei, una mappatura che si espande tra Vienna, Praga e la Polonia, tra Melk e l’abbazia di Seitenstetten, tra la Weimar di Goethe e i Girolamini a Napoli, sono territorio d‘incessante scoperta per Listri, goloso collezionista di preziosi libri antichi.

Nelle sue immagini appaionoi percorse da fantomatiche presenze, da munacielli dispettosi ed emblematiche proiezioni di grandezza. A Versailles, dietro la teoria dei salons ufficiali dell’antica corte borbonica, si dischiudono ambienti negletti, soprattutto di epoca Restaurazione, volumetriche nebulose dalle pareti macchiate d’umidità su broccati consunti o marmorino ferito. C’è il Walhalla di Leo von Klenze, sul Danubio a Ratisbona, con i suoi colonnati dorici, tanto eroici e guerreschi e la Galleria Lepanto di Palazzo Colonna in Roma, sovraccarica di splendori come la caverna di Alì Babà. Si impaginano stucco cipriato e pareti candide ed echeggianti, cromie fauve o mozartiane spolverate d’’oro, purismi neoclassici modulati da elementi decorativi stringati e da sfumature in tono o in diretto contrasto.” Il comune denominatore dei luoghi che mi hanno attratto maggiormente nel corso degli anni- confida Listri- , si può definire qualità dell’assenza, laddove anche l’aria possiede una misura”. 

Decisamente il contrario della sua casa fiorentina, che affaccia su un inatteso giardino concluso tracciato da siepi di bosso concentriche, in una piazza emblematica della città del Giglio. Qui, la cifra curiosa, onnivora ed eclettica del collezionismo che ha abbracciato come una sorta di affermazione di sé, ha preso del tutto il sopravvento, ha invaso ogni stanza e ricetto, perfino la scala di pietra serena. il cardine attorno al quale ruota ogni cosa, è la collezione archeologica , sculture romane, epigrafi e frammenti di modanature colossali, protome leonine, urne cinerarie e cippi, che sono accumulate in sapiente e pittoresco disordine piranesiano nell’ingresso, davanti al camino quattrocentesco o sulle enormi consolle d’ebano fogginesche, che gremiscono le pareti e invadono il pavimento in cotto, evocando il magistero di eclettici connaisseur del passato, da Lord Arundel e Horace Walpole, fino all’horror vacui fibrilante di John Soane. Una suite in crescendo che apparenta Listri alle acribie romantiche di Charles Ephrussi, lo Swann prosustiano, e all’ostinazione compositiva del sulfureo “ anglista romano” a Palazzo Ricci. Le varie stanze della residenza sono nate quale progetto per contenere ed esaltare le raccolte. Al mezzanino, una volta bassa e materna incastona le diverse sezioni del cabinet de curiosité di Massimo Listri, avori tedeschi,mirabilia, naturalia, valve incise, netsuke, “paci” lombarde e venete, ceramiche e bronzi, vetri di Hall, di Venezia e delle Fiandre. Ultima arrivata, una piccola croce in cristallo di rocca dell’atelier milanese dei Miseroni, databile ai primi del XVII secolo, trovata a Praga, la magica città di Rodolfo II d’Asburgo, imperatore e negromante la cui Wunderkammer smisurata e in seguito dispersa dagli eventi bellici della Guerre dei Trent’Anni, voleva essere un compendio e un mezzo di controllo dell’intera realtà terreste e celeste. La biblioteca contiene rarità bibliografiche di secoli e ambiti geografici e tematici differenti, marocchino rosso e chagrin, legature “aux armoiries" , ranghi di dorsi color cognac dalle elaborate dorature rese pacate dall’uso. “ Il mio collezionare è spinto dalla curiosità verso il bello ma anche da una pulsione irrefrenabile nei confronti dell’insolito, che mi spinge a a creare apparati ideali per esaltare la valenza assoluta e il potere medianico degli oggetti. E’ importante che ogni cosa trovi un suo luogo e solo quello, che stabilisca rapporti poetici e sibillini, che si ponga in tensione con le altre che le stanno vicino. La mia linea di collezionismo variegata ed eclettica vive nella necessità di un’appropriata disposizione per le diverse raccolte che vi si incrociano e confrontano in un contrappunto tonale che produce quella bellezza che inseguo. L’originalità- conclude Massimo Listri- risiede nell’assemblaggio migliore e nell’arditezza inattesa di un gusto che è riflesso dell’anima e che pretende, illusorio e follemente tenace, di lanciare una sfida all’eternità.” ortogonale 



 

Cesare Cunaccia
01 October 2018

L’interno vivente del bosco

Massimo Listri ha iniziato a fotografare Castelporziano nel mese di maggio, dopo un inverno più lungo del solito, che ha messo a dura prova la foresta e soprattutto la secolare pineta.

Quello del 2018 è stato un inverno eccezionalmente rigido nell’Agro Romano, tanto che la neve ha imbiancato il litorale, rendendo irriconoscibile la duna mediterranea.

La campagna fotografica commissionata dall’Istituto per l’Enciclopedia Italiana Treccani doveva cogliere i tratti salienti della Tenuta Presidenziale, concentrandosi sul paesaggio e scegliendo tra i tanti luoghi di fascino, soltanto quelli più significativi.

Il leitmotivdi questo volume, infatti, non è quello di illustrare i molteplici volti di un ecosistema floro-faunistico complesso e ricco come quello di Castelporziano, ma piuttosto quello di rendere tangibile lo straordinario carattere di un luogo antropizzato sin dall’antichità e ancora palesemente selvaggio. Un luogo in cui natura e cultura si sono tenacemente fuse, dando vita ad una mirabile armonia. 

Castelporziano, infatti, è un raro esempio di paesaggio culturale. Rappresenta, secondo la definizione di Norberg-Shultz, “l’addomesticamento delle forze naturali e la realtà vivente, manifestata da un processo ordinato, cui l’uomo è partecipe.”. Di questo processo ordinato la Presidenza della Repubblica può dirsi, più che partecipe, la vera protagonista. Va ricordato infatti che, lottando quotidianamente contro il suo depauperamento, il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica assolve alla primaria funzione della tutela del paesaggio culturale di Castelporziano, del suo equilibrio ecologico e della sua inedita specificità ambientale. 

Rendere tangibile il carattere di un paesaggio tanto singolare e delle sue continue mutazioni è una sfida anche per un grande fotografo come Massimo Listri.

Quella di Castelporziano, infatti, è una bellezza primordiale, perché reca il segno dell’eternità, ma allo stesso tempo inafferrabile, perché muta ogni ora del giorno.

Listri raccoglie la sfida e fissa in ogni immagine quel carattere eroico del paesaggio laziale che Mario Praz definisce numinoso. Evita il vedutismo, quindi non si pone di fronte alla natura, piuttosto si immerge in essa. Parimenti rifugge il pittoresco e costruisce artisticamente un paesaggio concettuale. Applicando il teorema dell’assenza, con un approccio che “reclama per sé una cifra metafisica, sospesa, atemporale”, Listri rielabora mentalmente il paesaggio e lo idealizza. 

Fedele a questo assunto, giunge nella Tenuta Presidenziale nell’istante in cui, quasi all’improvviso, esplode la primavera, con i suoi colori, i suoi profumi e soprattutto la sua luce. I campi, coperti da un tripudio di fioriture selvatiche, sembrano immensi tappeti policromi, con tinte che vanno dal lilla della malva silvestre al bianco delle pratoline, dal giallo dei ranuncoli al rosso dei papaveri. Le facciate del borgo del castello, accarezzate dal sole, sono sgargianti.

Negli scatti riesce a cogliere le potenzialità di questa particolare inclinazione del sole. Sfruttando abilmente il chiaroscuro, mette in risalto le proprietà scultoree delle forme nude dell’architettura, nobilitandone la rustica semplicità. Un’architettura, quella del castello, che è priva di ordinanze e di apparati decorativi ed è ingentilita solo dal purismo post-neoclassico della Torre dell’Orologio e dell’Esedra. Un’architettura che, essendo contraddistinta da una sommessa essenzialità, si rivela perfetta per essere trasfigurata dall’inconfondibile cifra stilistica di Listri.

Nelle foto, i volumi diventano astratti: si avvicendano nel contrasto cromatico, contrapponendo prospetti in luce e in ombra, stagliandosi netti sull’azzurro intenso di un cielo cosparso di vaporose nuvole bianche. Alla maniera del Pictor Optimus, Listri rappresenta il borgo assolato, deserto, immobile e avvolto in un silenzio assordante, come se fosse una delle tante piazze metafisiche d’Italia.

Nelle immagini degli esterni, il chiaroscuro valorizza ogni dettaglio architettonico. Da vicino, rivela la morbidezza degli intonaci. Fa emergere le puntigliose merlature ghibelline del castello, forzando la bidimensionalità dell’immagine. Rivela, nella sapiente tessitura di mattoncini, le fasi costruttive delle antiche mura romane.

Sotto la stessa luce ardente Listri perlustra anche gli interni del castello, cercando di catturare ogni raggio di sole capace di filtrare dalle finestre. Listri usa deliberatamente solo la luce naturale, se necessario la attende a lungo, con tempi di posa lunghissimi, per captare ogni minimo dettaglio e rendere viva anche l’eleganza consunta dei saloni più cupi.

Con pazienza, trasforma la cosiddetta “Sala dei Trofei” in un ambiente siderale ed etereo. I trofei, che “sintetizzano icasticamente” uno dei temi di vita fondamentali della riserva reale di caccia di Castelporziano, aleggiano sul glaciale candore delle pareti, come se lievitassero nel vuoto.

Con la stessa amorevole cura, e forse maggiore soddisfazione, riprende la coffe-house. Un ambiente romantico e desolato, che lo commuove. I muri umidi e screziati sono interamente decorati da semplici pitture trompe l’oeila tempera, che rappresentano vedute del castello, paesaggi, fronde ed uccelli, scandite da una falsa struttura architettonica. Immagini in gran parte svanite, dunque poetiche e maggiormente toccanti. 

Sempre con la stessa luce, e con la stessa precisione, coglie nel museo alcuni vividi frammenti di antiche pitture romane.

A settembre, godendo della maggiore uniformità della luce autunnale, l’obiettivo fotografico si dedica alla rappresentazione della natura naturalis, ovvero del paesaggio meno antropizzato della tenuta, costituito dalla duna mediterranea che digrada dolcemente fino al mare, dalla foresta caducifoglia e dalla pineta, con le sue tante componenti vitali. 

Listri si addentra nella penombra del bosco, per rappresentarne le tranquille atmosfere e svelarne il latente mistero. Con un approccio riflessivo, quasi sentimentale, instaura un colloquio insolito e privato con la natura, trovandovi una dimensione ideale e allo stesso tempo raccolta. Il suo sguardo, che è quello di un grande fotografo di architettura e di interni, vuole dare ordine e misura ai luoghi, cercando la geometria anche nel caos silvestre. In questo modo, ritrae la foresta come un interno vivente, trasformandola in un paesaggio intimo, denso di atmosfere psicologiche e allo stesso tempo governato dalla simmetria e dalle proporzioni.

Attraverso imprendibili visioni prospettiche, le strade sterrate che attraversano il bosco appaiono come maestose gallerie d’ingresso alla dimora di un originario genius loci.

Gli interni viventi della foresta sono coperti da masse oscure di fronde che lasciano trapelare la luce e intravedere un cielo dal blu giottesco. Rievocano le ombre pensose descritte George Meredith e le riflessioni di Eliade sulla sacralità delle pietre, dell’acqua e degli alberi

Questi interni sembrano “arredati” con veri e propri capolavori di ebanisteria. La foresta, infatti, è ricca di esemplari secolari e di alberi monumentali, che mostrano nei tronchi scultorei un’esuberanza quasi innaturale. I tronchi, fasciati da radici tentacolari o squarciati da fulmini, nodosi o contorti, con cortecce fessurate o pietrificate, sono fotografati come capolavori di un mirabile intagliatore del legno. La plasticità e la percezione quasi tattile di questo materiale trasforma gli alberi in naturali opere d’arte.

Eccezionalmente, laddove racchiudono quei rari e prodigiosi specchi di acqua detti piscine, gli interni della foresta sembrano “pavimentati”. Sopravvissute alla strenua lotta al paludismo condotta nel secolo scorso, le piscine sono “fabbriche di naturalità”ovvero zone umide con un valore ecologico straordinario. Listri ne coglie l’incanto drammatico. Sottolinea la pastosità della superficie imperturbabile dell’acqua come se fosse artificiale; ne accentua il verde, come se fosse un elemento cromatico surreale.

A sorpresa, gli “interni” della foresta di Castelporziano nascondono notevoli ruderi, avviluppati da muschi e da edere. Non soltanto i modesti affioramenti archeologici del Vicus Augustanus, il piccolo villaggio indicato da Plinio il Giovane come il centro abitato più vicino alla sua villa. DelVicusemergono dal fogliame secco della foresta solo le fondamenta, ricoperte da un manto vellutato verdeggiante.

Ma anche le arcate di un acquedotto databile tra la fine del I secolo e gli inizi del II secolo d.C. e le poderose rovine della villa imperiale di Tor Paterno.

Listri ritrae le preesistenze archologiche disseminate nella foresta come spazi atemporali, con luci diverse, in momenti successivi. La sua visione laterale dell’acquedotto è memore della lezione Piranesiana, mentre quella della villa imperiale è completamente autoreferenziale. A quest’ultima una enfiladedi varchi in prospettiva centrale dona una misteriosa profondità. 

In queste fotografie riecheggiano i versi di Nikolaj Vasil'evič Gogol’: “Era bellissima la silenziosa e deserta campagna romana disseminata di rovine di antichi templi, sparse tutte intorno in un ambiente di ineffabile pace, ora fiammeggianti in una banda dorata, per le fitte ciocche di fiorellini gialli che le costellavano; ora ardenti di un rosso fuoco come quello di carbone acceso, per i petali vermigli del papavero selvatico”

E le parole di John Ruskin, sulla vegetazione che assimila l’architettura all’opera della natura e le conferisce “quelle condizioni di colore e di forma che sono universalmente diletto all’occhio dell’uomo."

Fotografie, quelle degli interni viventi, in cui si manifesta “l’essenza della visione di Listri fotografo di stati d’animo in spazi vuoti"

Immagini scenografiche create ad arte per illustrare l’incanto del paesaggio culturale di Castelporziano, emblematica sintesi di natura e cultura. Lo stesso incanto che duemila anni fa Plinio il Giovane narrava all’amico Gallo. Voglia il cielo che anche il nostro lettore, come Gallo, se ne invaghisca!


 



 

Cristina Mazzantini
01 October 2018

Le Sorridenti


 


 

L’infatuazione di Massimo Listri per le “Sorridenti”, ossia per le statuette totonacas qui riprodotte, è sorta “per procura”, a partire da delle istantanee da me scattate con il telefonino affinché lo stesso Listri potesse farsene un’idea. E l’idea se l’è fatta, e come!

Qualcosa di simile accadde a Filippo V di Spagna nel 1714, dopo che l’abate Alberoni gli ebbe mostrato una miniatura della principessa Farnese. A differenza dei miei pics approssimativi, il ritratto di Elisabetta, una giovane grassoccia e butterata, venne assai ingentilito dal pittore della corte parmigiana, tanto che il re cadde innamorato all’istante e prese a smaniare di farla sua sposa immantinente. In effetti, con l’aiuto di papa Albani, il matrimonio venne celebrato di lì a poco per procura, e subito dopo la principessa si mise in viaggio. L’incontro avvenne a Guadalajara, dove Filippo V si era recato ad attenderla. Quando Elisabetta apparve, il re cadde ai suoi piedi e senza quasi guardarla la implorò di concedergli ipso facto ciò che bramava sopra ogni cosa.

Anche Listri, dopo aver visto i miei scatti, ha iniziato a struggersi per le belle statuine, e non si è dato pace finché, dopo mesi, non ha ottenuto l’assenso a “impalmarle”. Superare le obiezioni dell’INAH (Instituto Nacional de Antropología e Historia) ha richiesto da parte del fotografo l’abilità del saltatore di ostacoli, ma alla fine la sua tenacia è stata premiata. Dell’esito felice l’ho informato io stesso con un whatsapp che l’ha raggiunto in piena notte in piazza Santo Spirito.

Confesso che non riesco ancora a capacitarmi della prestezza con cui ha reagito alla notizia. Mi dico che Listri, al pari di Marinetti, ha fatto della velocità un canone e del fervore una regola; mi dico che l’accelerazione, per lui, è bellezza… ma –mi chiedo– sarebbe così se non fosse spinto da “concupiscenza”? I suoi soggetti fotografici sono altrettanti oggetti di desiderio (in senso apollineo più che dionisiaco, forse, ma comunque dei desiderata). Listri è un collezionista di mirabilia, un’inclinazione –nella fattispecie– inseparabile dall’entusiasmo se non dalla sfrenatezza. Il suo atteggiamento di fotografo non è diverso da quello dell’amatore di rarità: sicuro nel gusto, risoluto nell’approccio, strenuamente convinto che ciò che è raro è bello e viceversa. La fede nell’eccezionalità della bellezza, e la sua singolare finezza nel riconoscerla, è, alla fin fine, ciò che imprime impeto e velocità alle sue scelte di fotografo e di collezionista.

Comunque sia, appena ricevuta la notizia Listri è balzato su un aereo che l’ha condotto da Firenze a Parigi e da Parigi a Città del Messico e da lì a una località mai sentita nominare; per poi proseguire in macchina verso una contrada ancor più ignota – in piena notte, luna calante, in una regione nota per le frequenti disavventure dei transeunti – e infine giungere a un Holiday Inn identico a tutti gli altri Holiday Inn. Listri, a questo punto (3.30 am) ha rivolto al “funcionario a cargo” la stessa richiesta che il re di Spagna rivolse alla Farnese, con lo stesso tono imperativo. Ma le “Sorridenti”, ahimè, si trovavano altrove, inserrate come principesse da favola in pesanti casse di legno. E lì sarebbero rimaste se non fosse vero che AMOR VINCIT OMNIA. Per fortuna, Virgilio ha ragione, e ne è riprova il fatto che il riscatto delle belle statuine è avvenuto nel volgere di poche ore. Epilogo: gli amori fra di esse e il fotografo si sono consumati fra le 8.30 e le 11.30 am di un lunedì di marzo, nelle sale deserte del Museo di Torreon: amori rinviati, sofferti, fantasticati, quindi ancor più concupiscenti…

L’incontro con le figurine totonacas è durato “l’espace d’un matin”, eppure a Listri quelle poche ore sono bastate per mettere in luce la loro indole profonda e fissarla in ritratti altrettanto rivelatori. Anzi, doppiamente rivelatori, visto che le immagini, oltre a palesare il significato delle cose rappresentate, estrinsecano i sentimenti dell’artefice. De te fabula narratur. Non sorprende, dunque, che i ritratti delle “Sorridenti” mettano a nudo, oltre a tutto il resto, anche l’interesse, lo stile e perfino l’umore del fotografo. Diversamente da Filippo V che, sebbene deluso dalle vere forme di Elisabetta, dovette comunque accontentarsene, Massimo Listri, ritraendo in modo sagace e penetrante le belle figurine, ha creato forme non meno vere che immaginarie: un mondo possibile cosparso di sorrisi e ammiccamenti, ivi incluso quello dello stesso fotografo.

Massimo Listri ha maturato una vasta esperienza come ritrattista di sculture, con servizi famosi come quelli dedicati alle teste fisiognomiche di Franz Xaver Messerschmidt e ai busti marmorei dei Musei Vaticani (raccolte esposte in numerose mostre). Il suo approccio alla scultura non si basa sull’angolatura, l’illuminazione a contrasto e la profondità di campo, cioè su quegli elementi capaci di ricreare su una superficie bidimensionale la plasticità dell’originale. No, Massimo Listri ritrae le statue avvicinandosi ad esse frontalmente, fin quasi a toccarle, e ingrandendone il volto a dismisura. In tal modo, ottiene –senza servirsi di ombre o altri trucchi luminosi– straordinari effetti fotografici. Viste da vicino e dirimpetto le fattezze del viso lasciano trasparire connotati altrimenti impercettibili, divenendo “appariscenti”, cioè vistose e irreali. Con le sue fotografie, Listri rivisita le fattezze dei volti scolpiti non in risposta a un interesse fisiognomico (come per contro fece Messerschmidt), bensì per saggiare, oltre le convenzioni invalse, le possibilità espressive del ritratto fotografico. La fecondità di tale intento emerge chiaramente dagli “appariscenti” ritratti qui riprodotti: volti talmente particolareggiati ed espressivi da sfidare per eccesso i limiti della nostra percezione. Ma attenzione, l’avvicinamento all’originale, nel caso di Listri, non è solo né principalmente meccanico. Esso è accompagnato da una comprensione profonda, da un rapporto di fiducia che consente al fotografo di accedere alla “fisionomia sottostante” dei volti inquadrati. Listri non si approfitta dei suoi soggetti –men che meno delle statuette totonacas–, non li snatura, non li acconcia; si limita a rilevarne quei connotati che ad altri fotografi, meno comprensivi, sfuggirebbero. Procede come un navigatore in vista di un’isola sconosciuta: accosta, bordeggia, misura, tratteggia… L’arcipelago delle “Sorridenti” richiedeva uno sguardo limpido, saggio e rispettoso, in grado di renderne appariscente la fisionomia senza però profanarla: lo sguardo di Massimo Listri. Il risultato salta agli occhi: i ritratti qui riprodotti convogliano più informazioni di qualsivoglia descrizione scientifica. Ancor più importante, le figurine appaiono fresche e briose come se fossero appena state risvegliate da un concupiscente cavaliere fiorentino.



 

Giorgio Antei
06 August 2018

     

Se c'è un luogo remoto da Massimo Listri è Matera, ma Listri è vicino a tutto ed è quindi capace di restituire un'immagine della città ignota a quanti l'hanno intesa come un luogo di sofferenza e di disagio. Questi furono a lungo i sassi prima che un altro fotografo, Mario Cresci, li consacrasse in una dimensione spirituale e densa di dolore e di memoria. Listri esce dai palazzi del suo cuore e posa gli occhi su architetture, sassi, chiese rupestri, basiliche barocche e restituisce loro ordine e armonia, cancellando il dolore e la privazione. Così Matera, oltre ogni retorica pittoresca, ci appare un luogo inimitabile, uno spazio del paradiso per anime inquiete che preferiscono l'irregolarità del mondo così vicina alla natura rispetto all'ordine di un potere perduto.”


 

Vittorio Sgarbi
02 July 2018

Massimo Listri fotografo è anche stampatore e impreditore della sua arte, nonché dandy, libertino, picaro, bibliofilo, collezionista e bon vivant. All'insorgere di alcune di queste sue qualità e attività non deve essere stata estranea la frequentazione di personaggi come Franco Maria Ricci e Vittorio Sgarbi, fin dalla fondazione di “FMR”, la rivista d'arte più bella del mondo, che l'ha lanciato nei primi anni '80. Accanto a loro, pur coetaneo di Vittorio, aveva l'aria dell'eterno ragazzo, dello scolaro, nell'accezione accademica, con un sorriso che fisionomicamente, oggi ancora di più, ne sottolinea l'ascendenza etrusca. Fu lo stesso Vittorio a coniare subito per Massimo l'etichetta distintiva di “fotografo che non documenta ma inventa la bellezza”. Che siano paesaggi, architetture, interni o sculture, se sono noti ce li fa scoprire con nuova emozione; se sono sconosciuti emanano la magia di un'invenzione. Come testimoniano le vedute di Matera qui esposte o certi angoli della casa museo Cavallini Sgarbi a Ro Ferrarse, dove una composizione serrata di opere eterogenee, frutto delle ricorrenti manipolazioni di Vittorio, viene tradotta dal suo obiettivo in scorcio abbagliante di Wunderkammer.

Mario Andreose - Milanesiana
02 July 2018

Nei grandi quadri fotografici di Massimo Listri il minuzioso virtuosismo si sposa felicemente con un raro e raccolto valore poetico. Queste due qualità congiunte fanno, a mio avviso, di Massimo Listri uno degli artisti più validi e originali del nostro tempo.


 


 

 

 

Ranieri Gnoli
10 June 2018

Specialmente in lui la costante ricerca dell'obiettività vagliata fino al più piccolo dettaglio così che l'immagine assume una nuova realtà quasi metafisica. Considero soprattutto le opere racchiuse nella grande monografia di circa duecento immagini: Biblioteche, Palazzi illustri, ville, dimore e residenze, una vera e propria raccolta di opere d'arte così vicine alle immagini che hanno costituito per anni la b se su cui ho costruito la mia opera di scenografo.

Posso individuare facilmente il "punto di vista" situato proprio al centro del quadro dal quale si dispartono precise linee prospettiche a delimitare spazi non dissimili da quinte di un ipotetico teatro dell'immaginario.

Il sipario si è alzato, ma nessun attore turberà la solennità della scena nessun essere umano apparirà da quelle porte socchiuse, nessuna voce interromperà l'immobilità del silenzio. Non è la luce del sole quella che filtra dalle grandi finestre, ma un lucore artefatto, simulato, elaborato che disegna questi meravigliosi impianti scenici tanto da indurci per qualche secondo a vagare ammirati in un mondo sconosciuto pur sempre intimamente legato alla realtà più oggettiva.

Ezio Frigerio
09 June 2018

Ciò che rende unico il suo lavoro è il modo in cui ha reso gli interni così vividi, come se avessero una vita segreta propria che solo lui sa come rappresentare. Listri ha la straordinaria capacità di catturare tutti i piccoli dettagli che fanno la differenza e rivelano tutte le storie che rimangono nascoste dietro la superficie. Le foto di Listri trasmettono un silenzio quasi assordante, come se il tempo si fosse fermato e gli umani fossero improvvisamente scomparsi e l'unica cosa che ricorda di loro sono gli interni che hanno lasciato, i resti delle loro vite e delle loro passioni, la loro arte e cultura.

Apostolos Mitsios
08 September 2017

     Sono stato in assoluto il primo, insieme all'editore Franco Maria Ricci, a vedere Massimo Listri non come un fotografo ma come un artista. Con tutto quello che l'ambigua parola significa. “Artista” è anche un bravo cuoco o un avvocato capace di fare assolvere un colpevole.

     Ora ecco Listri, a Varsavia, inseguire con il suo obiettivo quelle chiese e quei palazzi che furono ricostruiti dopo i bombardamenti attraverso i dipinti di Bernardo Bellotto. Con buona pazienza, e con lo spirito di un artista concettuale, Listri si è messo nella posizione in cui era Bellotto nel dipingere gli edifici monumentali negli spazi urbani. Non solo le architetture, quindi, ma anche l'aria, il contesto, il cielo. E' proprio grazie a ciò che è intorno che quegli edifici assumono rilievo, hanno una dimensione monumentale. E' lo spazio che li fa esistere. E, oggi, essi non appaiono falsi, proprio perché intorno a loro brulica la vita. Ma a Listri non basta. E allora agisce com in sogno. E non fotografa le riproduzioni costruite, ma gli edifici dipinti da Bellotto per rimontarli nei luoghi dove stavano.

      La sovrapposizione è perfetta e coerente: le carrozze, convivono con le automobili, i passanti di oggi con i personaggi in abiti d'epoca, i monumenti nelle piazze con gli arredi urbani, in un miscuglio del tutto plausibile, che ricorda, per analoga naturalezza, quello dei due tempi del film Kate&Leopold.

     Nella Varsavia di oggi le architetture di Bellotto sono perfettamente plausibili, più degli edifici di cui hanno ispirato la ricostruzione.

    Listri rende naturale questa sovrapposizione, nella convinzione che la realtà della pittura sia più vera dell'artificiosa realtà della ricostruzione.

     Bellotto è più autentico della Varsavia reale. E la presenza delle sue architetture non genera rigetto, neppure nell'atmosfera luminosa di una giornata qualunque. L'aria del tempo di Bellotto è più viva dell'aria fredda del nostro tempo.

    L'operazione di Listri è perfettamente concettuale. Non è ingannevole. Non è illusoria. L'autentico non è ciò che abbiamo davanti gli occhi ma ciò che fu davanti agli occhi di Bellotto, che Listri ripropone con un adattamento che stabilisce un processo di autenticazione, contro una inevitabile falsificazione.

    Cos'è dunque il reale? E come può essere vero, ciò che è falso?

    Il verosimile dell'arte è più vero della realtà a riprodurre i quadri.

    La fotografia di Listri documenta questa ambiguità. Se ne compiace. Perché nella fotografia i due livelli si fondono e si confondono.

    La fotografia è ambigua, perché non può prescindere dalla realtà. La quale, a sua volta, prescinde da se stessa. Con questo procedimento Listri esce dalla fotografia per entrare in una dimensione allusiva, ambigua, concettuale. L'esito è insolito. E certamente fotografico. Ma più grazie a Bellotto che grazie a Listri. E non perché Listri non abbia un occhio puro. Ma perché il nostro tempo è contaminato.

Vittorio Sgarbi
07 October 2014

[……] Desideravo fermare tutta la bellezza che avevo davanti, e con il tempo questo desiderio è stato soddisfatto. La difficoltà accresceva il valore del proposito […..]. Julia Margaret Cameron, Gli annali della mia casa di vetro, 1874. 

   Per illustrare il suo affascinante viaggio nelle antiche collezioni di archeologia classica dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci si è avvalso dell’occhio fotografico di Massimo Listri, autore tra i più conosciuti ed apprezzati nel mondo per le sue straordinarie fotografie di architettura e di interni. Una scelta mirata, quella del direttore dei Musei Vaticani, poiché da sempre il prediletto terreno di espressione del noto maestro fiorentino è rappresentato dai più significativi ed emblematici luoghi della cultura e del collezionismo d’arte.

Effettivamente Massimo Listri approda ai Musei Vaticani con un’esperienza artistica vastissima dopo aver raccontato in oltre tre decenni di carriera, un composito universo di musei d’arte antica e moderna, palazzi nobiliari, dimore e giardini principeschi, biblioteche aristocratiche e conventuali, archivi palatini, accomunati tutti da un medesimo carattere distintivo: l’appartenenza a quel complesso di luoghi che nei secoli hanno esercitato un ruolo culturale portante, distinguendosi come eminenti centri propulsori di conoscenza, arte e civiltà del mondo. Un campionario di spazi mirabili, densi di storia, che Listri ritrae sistematicamente nell’essenzialità delle rispettive forme, in una condizione di assoluta solitudine, censurando qualsiasi tangibile forma di umana presenza, per restituire di ognuno di essi la peculiare identità, l’anima più profonda.

Non è facile parlare della sua produzione artistica senza correre il rischio di risultare ripetitivi o apparire convenzionali; perché moltissimo, in verità, è stato già detto e scritto sul suo conto da autorevoli ed illustri esponenti del mondo della cultura ad introduzione o commento delle innumerevoli pubblicazioni ed esposizioni che hanno accolto ed ospitato le sue opere. E tuttavia, per comprendere pienamente l’approccio alla fotografia da lui perseguito, è indispensabile ricordare come la bellezza ne sia il fondante criterio ispiratore. E’ questo, inevitabilmente, il termine su cui in maniera costante si appuntano gli apparati critici intenzionati a commentare la sua opera e a delinearne correttamente la personale cifra stilistica.

Listri è il fotografo che inventa la bellezza. Lo dichiara Vittorio Sgarbi sottolineando come il suo sguardo educhi l’occhio dell’osservatore a captare anche tutto quello che rischierebbe di non vedere dietro l’immagine del reale; in particolare gli armoniosi volumi delle stanze che elegantemente ritrae estendendo il campo della visione fino al suo estremo limite. Ed eroe della bellezza lo definisce Giovanni Pallanti ricordando come il suo lavoro trasformi il reale con una partecipazione immaginifica così incisiva da trascendere la fotografia in vera e propria arte creativa; un lavoro la cui originalità sta nel voler rendere bello il mondo degli uomini, spesso grigio, consumato e stanco.

Ma è anche il nostro autore ad affermare senza mezzi termini che è proprio la bellezza l’unica categoria da cui trae indirizzo ed orientamento nel suo lavoro, con tutti quei qualificanti valori di equilibrio, ordine ed armonia che ne identificano il relativo corollario; e il motore che determina l’esecuzione dello scatto fotografico è sempre il desiderio di catturare e restituire l’intima poesia dello spazio rappresentato. E’ in tal senso che l’omissione di qualsiasi presenza complementare nelle sue opere, in particolare di quella umana, diviene determinante. Nulla deve intervenire ad alterare l’esito ultimo dell’atto interpretativo; nulla deve prevalere sul manifestarsi appieno della bella immagine. Lo sottolinea Cesare Cunaccia ricordandoci che per il fotografo d’arte fiorentino la rimozione del soggetto diviene fatale proprio per evitare che esso, con le sue intrinseche peculiarità espressive e caratteriali, possa prendere il sopravvento sull’obiettivo prevaricandone le autonome possibilità inventive.

Per raggiungere il proprio obiettivo, quello di fotografare il bello assoluto, Listri si affida al suo istinto artistico attivando un processo creativo fondato su una precisa selezione degli ambienti da mettere in posa e su una accurata composizione formale della fotografia; dunque di una scelta rigorosa del punto di vista, della profondità prospettica e della geometria delle inquadrature che come rileva Giorgio Antei, per equilibrio e simmetria, somigliano ad autentiche rime. Infine, della qualità essenziale della luce, fondamentale per captare ogni singolo e minimo dettaglio, sempre deliberatamente utilizzata al naturale, nelle più congrue ore del giorno. Tutti elementi di assoluto rilievo che il nostro deriva dai grandi maestri della pittura, avendo lungamente esercitato il suo occhio in particolare sull’opera di artisti della grandezza di Piero della Francesca, Caravaggio e Vermeer.

Per il campo d’ azione che predilige - l’arte e l’architettura - la fotografia o meglio la ritrattistica degli spazi di Massimo Listri rimanda espressamente a quanto di più nobile e degno l’umana civiltà abbia prodotto nel corso della sua storia. Per questo le scenografiche, totalizzanti composizioni da lui inventate, divengono, nelle parole del già citato Pallanti, la prova che l’uomo non è soltanto il distruttore dell’armonia dell’universo ma anche e soprattutto il realizzatore di opere stupende; e al tempo stesso un coraggioso tentativo di difendere intelligenza e cultura dalle aberrazioni e dagli sfregi che il vivere quotidiano di oggi arreca ad entrambe.

Gli individui, pur essendo a quel che sembra scomparsi dalle porzioni di mondo rappresentate, lasciano quindi avvertire ugualmente la loro presenza proprio attraverso quegli interni che costituiscono la traccia più alta e vitale del loro passaggio, il solco più fruttuoso delle loro esistenze, la suprema testimonianza della loro arte e della loro cultura. E’ in questo senso che le immagini di Listri, come dichiara lui stesso, possono considerarsi una esemplificazione della poesia metafisica della presenza-assenza e che pertanto, nonostante l’omissione della figura individuale, chi le osserva ha sempre l’impressione di trovarsi al cospetto di un’anima, di avvertire una umana presenza.

La fedeltà che manifesta rispetto all’evidenza del visibile adottando un punto di vista comunque descrittivo e verificabile, scevro da giochi di composizione troppo complessi o arbitrari, fa si che la sua opera non manchi di contatti con la tradizione della grande fotografia documentaria di cui, tuttavia, non condivide le intenzioni programmatiche di base. Inoltre l’apparente disinteresse verso l’individuo e l’attenzione nei riguardi di spazi a prima vista completamente abbandonati, ci porta ad avvicinare le sue creazioni anche a quella vasta area di lavoro che conosciamo come fotografia dei luoghi; genere incentrato sull’indagine del paesaggio contemporaneo, fortemente radicato in quella stessa tradizione documentaria, riconducibile alla produzione di maestri come Walker Evans ed alle fondamentali ricerche condotte dalla Scuola di Düsseldorf.

Nondimeno la fotografia dei luoghi di Massimo Listri, anziché configurarsi, rispetto al principale indirizzo di riferimento, come testimonianza referenziale della marginalità, dell’incoerenza e del caos che hanno investito il mondo con i devastanti cambiamenti sociali, architettonici e paesaggistici imposti dal passaggio all’epoca postindustriale, offre una soluzione estetica che nella ricerca sostanziale e sistematica della bellezza, quella caotica frammentazione vuole arginare ed esorcizzare. Listri scatta foto bellissime in luoghi bellissimi, dunque è bellezza al quadrato; lo afferma Camillo Langone attribuendogli il titolo di fotografo più elegante d’Italia. Ciò è accaduto anche nei Musei Vaticani come chiaramente si evince dalle straordinarie tavole che accompagnano il percorso museale tracciato da Antonio Paolucci e dagli splendidi positivi fotografici di grande formato che contestualmente alla pubblicazione di questo volume, sono stati esposti per apprezzarne al vero la natura artistica. Basterà ricordarne una fra tutte: l’immagine della Sala a Croce Greca in cui la maestosità dell’anticamera del Museo Pio Clementino ci viene restituita in una perfetta simmetria di spazi, volumi e colori avvolti da una abbagliante luce metafisica, scaldata dall’invisibile ma rassicurante sguardo delle due sfingi che di spalle, silenziosamente, vigilano su quell’ armonico insieme.

Anzi l’affermazione di Langone appare, nel nostro caso, particolarmente pertinente. Se le antiche collezioni di scultura raccontate dal Direttore dei Musei Vaticani identificano uno scenario veramente privilegiato per la foto d’arte, esse hanno rappresentato, per la ricerca artistica di Massimo Listri, un referente ancor più naturale. Qui grazia, eleganza, armonia, equilibrio e bellezza sostanziano tout court i mondi raffigurati; e così come proprio per questo, nel pensiero di Antonio Paolucci, il visitatore che vi accede viene reso felice, allo stesso modo lo Spectator che avvicinerà queste fotografie, vi ritroverà quella quiete silenziosa in cui Listri riconosce l’essenza del suo lavoro, attribuendole la valenza di un’autentica terapia per l’anima; una condizione che solo il visitatore fortunato può sperimentare in una salutare e solitaria visita al Museo.

 

Rosanna Di Pinto
23 September 2014

Le fotografie di Massimo Listri riservano sorprese. Esaminate con la dovuta attenzione, si offrono infatti a una fruizione non solo estetica ma anche simbolica o metaforica. L’eleganza, l’accuratezza, la padronanza tecnica, il gusto, lo stile, ossia, la ricerca del bello, è percepibile a prima vista. La finezza quasi-poetica che guida lo sguardo del fotografo –traducendosi in inquadrature che per equilibrio e simmetria somigliano a rime– sebbene non salti agli occhi, è comunque evidente. Tuttavia, ad una maggiore profondità, agisce nelle immagini di Listri un’altra attrattiva, causata dal loro potere evocativo. Invero, scrutandole senza fretta, va affiorando una trama di allusioni e suggestioni, deliberate o casuali, che provocano la dilatazione del loro significato convenzionale. Taluni collegamenti, come quelli che rinviano ai maestri della prospettiva rinascimentale, sono scontati; talaltri molto meno. Il segreto di “Sala Bianca” (Musei fiorentini, 2009) è così ben dissimulato che nemmeno il fotografo ne è del tutto consapevole. Esaminando l’ambiente da vicino –deserto come tutti gli interni di Listri– scopriamo la presenza di una figura umana “intrappolata” nello specchio riccamente incorniciato al centro della composizione, lí dove si situa il punto di fuga; una figura poco visibile a causa della sontuosa porta bianca –bianca come la sala tutta– che occupa gran parte della specchiera. Sebbene sommersa nella profondità dell’immagine, essa c’è, e si sbraccia in segnali. Riconoscere il fotografo è facile, non altrettanto individuarne i richiami...

 

..Per descrivere le chiese di Massimo Listri non sovviene metafora più pregnante di quella immaginata da Proust: grandi conchiglie cesellate mezzo sepolte nella sabbia, prive di vita nonché di potere di evocazione. Ciò nonostante, la similitudine non è del tutto appropriata: l’occhio attento capta segnali, l’udito acuto percepisce fruscii, la mente sveglia intreccia fili:

 

La triste storia di questo tempio in rovina Soltanto un cercatore di arselle

La può raccontare.

 

Al cospetto delle chiese del fotografo fiorentino, la prima cosa che si affaccia alla memoria è appunto quell’haiku di Basho in cui si dice che a narrare la penosa vicenda d’un tempio abbandonato dovrebbe essere chiamato un hurakami hori, nessun altro all’infuori di un cercatore di arselle. Chi scrive ne ha conosciuto uno. Ogni mattina, al ritirarsi la marea, percorreva la spiaggia di Baelo Claudia tracciando geroglifici sulla sabbia. In realtà, faceva tutt’altro: dissotterrava molluschi fino a riempire il sacco che caricava sulle spalle. Il suo sguardo era così penetrante che le prede venivano individuate quantunque fossero invisibili. Era come se fra le arselle e il cercatore esistesse un’intesa di fondo, un patto pietoso come quello che nell’antica Roma intercorreva fra le vittime e il vittimario. Mentre si andava riempendo, il sacco vibrava di vite interrotte, vite di poco conto che solo un hurakami hori avrebbe potuto raccontare… ovvero qualcuno come Basho, che ne avesse battuto la pista e carpito il segreto. Una storia triste la può raccontare soltanto chi conosce il mondo dei defunti: è questo il senso dell’haiku? Oppure vuol dire che senza morte non vi è storia? Al riguardo, chi non ricorda il caso di Ming, quella vongola che visse nei mari dell’Islanda per cinque secoli filati, fintantoc un biologo la uccise per accertarne l’età? Sacrificandola poté verificare che aveva 507 anni –e non 470 come si era stimato– e scrivere una pagina di storia delle scienze naturali.

 

Se avesse conosciuto il loro deplorevole stato, Proust avrebbe definito i templi napoletani “églises assassinés”, chiese spacciate e abbandonate sulla spiaggia della dimenticanza. Soltanto Massimo Listri hurakami hori d’Oltrarno avrebbe potuto fare ciò che ha fatto: andarne alla ricerca, scoprirne l’antica bellezza e raccontarne la storia.


 

Giorgio Antei

Giorgio Antei
16 September 2014

Caro Listri,

a distanza di due anni dalla mostra che l’antiquario Bacarelli organizzò nella sua Galleria, ho visto oggi quella più impegnativa “I Musei di Firenze”.

Dato il carattere della Mostra e la Sede Illustre, che la ospita, c’era da temere che il tuo lavoro risentisse dell’ufficialità della circostanza, contraddicendo quanto ti avevo detto di quella preziosa mostra fiorentina.

E’ vero che la gran parte delle fotografie raccolte oggi riassumono, con diversi gradi di intensità, il nostro bagaglio visivo, talvolta il più ovvio, ma la qualità dell’assenza la ritrovo anche in queste immagini dove tu riduci all’essenziale la percezione delle forme, che appaiono in sè, senza nulla di esornativo che ne faciliti la lettura.

Com'è nel tuo modo, anche questa volta non ti affidi agli effetti speciali,, né alle luci, né al piacevole delle coloriture; così come censuri tutte le presenze complementari, le umane comprese, che potrebbero rendere più accattivante il tuo lavoro, anzi, tra le tante ineccepibili prove, fanno testo quelle dove perfino il colore cede alla semplificazione estrema del bianco e nero, al fascino, alla necessità del segno. Lo Scalone Lorenese degli Uffizi, la Sala da ballo di Pitti e lo scalone Poccianti, i due Lapidari di Palazzo Bardini, fino al Michelangelo di San Lorenzo e alla biblioteca di Michelozzo a San Marco, ne sono testimonianza.

Disegno, immaginazione e figurazione di progetti in fieri, non ancora destinati a diventare monumenti, si rivelano e rivivono nelle antiche misure, nelle partiture geometriche delle superfici, nelle scansioni dei pieni e dei vuoti, nella percezione tattile dei materiali, che ricreano degli spazi nei quali sarebbe possibile vivere, respirare.

I luoghi deserti raffigurati senza le forzature dell’artificio, sono vivibili dal di dentro; nulla vi è di accattivante, che implichi suggestioni di sorta, ma una elementare icastica evidenza dove anche l’aria è percepibile secondo i suoi differenti valori. Per questo i tuoi ritratti di ambiente si fissano in un vuoto di tempo, come ritrovamenti estranei ai casi e agli accidenti della cronistoria.

Si pensa che di rado un mestiere, possa diventare arte, quasi mai uno stile. Eppure questo mi sembra il tuo caso.

 

Buon lavoro tuo Roberto Coppini .

 

 

Roberto Coppini
10 October 2009

Da un percorso di parole a un percorso d'immagini, impresso sulla carta stampata: è la storia, in sintesi estrema, di questa mostra, che rappresenta il viaggio artistico di Massimo Listri in luoghi della città di Firenze, dove si esprime ad altissimo livello di qualità raggiunta, nel passato e nel presente, nell'architettura, nell'arte, nell'ordinamento e nell'allestimento di tesori culturali.

L'amico Listri, grande fotografo di fama internazionale, è partito su questo tracciato essenzialmente urbano con un leggerissimo viatico, che aggiungeva poco o punto peso alla sua attrezzatura professionale. Un permesso a mia firma per entrare ovunque, ça va sans dire, nell'universo composito e vario dei musei, luoghi d'arte e giardini che costituisce il Polo Museale Fiorentino; e il suggerimento di catturare le bellezze diverse di ambienti chiusi e spazi aperti interpretando di ognuno il particolarissimo genius loci. La vivacità gotica dei palazzi medioevali; la serenità monastica di chiostri e re, fettori; la magnificenza pubblica e privata di dimore e giardini rinascimentali; il fasto solenne di cappelle funebri progettate per l'eternità; il capriccio manierista di grotte e fontane; gli splendori barocchi degli appartamenti granducali; la raffinatezza di stanze e quartieri di età neoclassica; lo storicismo eclettico di origine romantica; il razionalismo novecentesco, fino alle soglie del nostro terzo millennio. E che per una volta non fossero i capolavori di Cimabue e di Giotto, di Donatello e di Masaccio, del Verrocchio e di Piero della Francesca, di Botticelli e di Leonardo, di Raffaello e di Michelangelo, di Tiziano, di Caravaggio, di Rubens e di Canova a dettar legge, reclamando attenzioni esclusive. Ma che entrassero invece nell'itinerario se e dove il fotografo avesse deciso d'inquadrarli: ingredienti straordinari, ma non i soli, di composti estetici mirabili cui il suo scatto avrebbe aggiunto un tratto artistico ulteriore.

Queste le premesse del pellegrinaggio di Listri nei musei d'arte fiorentini, del quale hanno fatto parte tre biblioteche storiche, pure dipendenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e un museo universitario. Luoghi e raccolte che rispecchiano l'origine medicea e granducale di gran parte del patrimonio fiorentino e, al tempo stesso, attraverso i secoli, la presenza di altri committenti e collezionisti, pubblici e privati, fautori delle arti non meno di quanto lo furono le dinastie al governo.

Certo, molti altri percorsi si potevano costruire mettendosi sulle tracce, sempre, di diffuse eccellenze d'autore. Partire dalla "cittadella sacra" che comprende il Battistero di San Giovanni, la cattedrale di Santa Maria del Fiore e il Museo dell'Opera del Duomo per seguire, attraverso basiliche, chiese, oratori del centro storico e dei dintorni, la gloriosa storia dell'arte sacra a Firenze. O privilegiare le espressioni artistiche del potere secolare, cominciando da palazzo vecchio con le sue stanze cariche di memorie e di capolavori, raggiungendo poi il bel Museo Bardini, interamente rinnovato, e tutti gli altri musei comunali. o andare per musei universitari, scientifici, di grandi collezionisti, di fondazioni e di enti... E chissà che questo non divenga possibile in ulteriori imprese, che abbiano di nuovo Listri protagonista di campagne fotografiche di pari tenore.

Cristina Acidini
20 September 2009

Fossero nati al tempo giusto alcuni italiani d’oggi sarebbero stati sicuramente a Fiume con Gabriele d’Annunzio nella città olocausta che si schierò contro le ingiustizie del mondo e l’arroganza dei potenti in nome della bellezza , subito dopo la prima guerra mondiale, che per sua intrinseca armonia non può tollerare nessuna deturpazione all’equilibrio tra ragione verità e grazia. Tra questi italiani di oggi che sarebbero stati sicuramente con d’Annunzio penso ci sarebbero stati Giuliano Ferrara, Camillo Langone, Vittorio Sgarbi e Massimo Listri ( oltre a chi scrive queste righe). Queste persone hanno in comune il gusto della provocazione intellettuale, una raffinata cultura e un senso estetico concepito come motore della storia. Ovviamente , sempre chi scrive queste righe sarebbe stato un buon gregario, un sott’ufficiale del soprannominato manipolo di eroi della bellezza : sicuramente tutti ufficiali di Stato Maggiore . 

Camillo Langone nel suo libro” Il collezionista di città” dice “ Massimo Listri , il fotografo più elegante d’Italia, altro che Giovanni Gastel che sarà pure nipote di Luchino Visconti, ma è pur sempre uno che d’inverno , invece di mettersi il cappotto si infagotta di maglioni” Questa canzone d’amore e di stima di Langone per Listri è scritta dalla penna più raffinata e glamour del giornalismo letterario italiano ed europeo. In fondo Camillo Langone si schiera con il nostro maggiore fotografo italiano che si è conquistato un posto di rilievo mondiale nell’arte della fotografia. E’ un naturale gioco di squadra che quel manipolo di eroi della bellezza di cui ho scritto poco sopra deve fare per difendere la “cittadella” dell’intelligenza e della cultura dalle aberrazioni e dagli sfregi che il vivere quotidiano di oggi gli arreca . Ma cos’è la fotografia di Listri ? Un passo indietro : l’arte è artificio per l’eccellenza : la pittura , la scultura e anche l’architettura andando oltre la realtà diventano una versione del vero maturata dentro il cervello e il cuore del artista . Per questa trasformazione del reale diventa bello quello che non c’è nella verità oggettiva che ognuno , dentro il proprio cervello, crede sia quella giusta . 

Le tracce degli uomini, in tutte le terre del nostro Pianeta , sono un vulnus alla creazione naturale . Solo la trasformazione di questo vulnus , attraverso la creazione artistica, riesce a far diventare poetica una violenta alterazione della natura . Per questa ragione la fotografia viene considerata un’arte minore : documentaria, giornalistica , naturalistica quando riproduce un paesaggio agreste , un bosco , i ciottoli di un fiume, un tramonto sull’acqua. Quando fotografa gli uomini essa diventa un documento psicologico . Anche un grande documento ma raramente diventa un opera d’arte si limita a riprodurre la realtà.

L’originalità della fotografia di Massimo Listri è invece quella di rendere bello il mondo , spesso consumato e stanco , degli uomini. Attraverso il suo obbiettivo quello che sfugge all’occhio umano, l’armonia, l’eleganza che c’è in ogni costruzione umana , e che spesso si nasconde dietro l’immagine reale , diventa visibile e comprensibile anche per i non esperti di fotografia . Un’ architettura , un mobile , una libreria , un tavolo diventano la prova che l’uomo non è solo il distruttore dell’armonia del Creato in cui viviamo ma anche il realizzatore di cose stupende strappate alla natura ,per ricostruirle in conseguenza di un periodo storico , del gusto del tempo e di un modo di vivere all’ interno di una casa . 

Per questa ragione Massimo Listri è considerato un grande fotografo di interni e di architettura : dalle sue fotografie si percepisce l’atmosfera che l’uomo riesce a dare alle cose che costruisce . Un giardino può essere lo spazio ideale per spiegare la scelta di vita di un’elite . Un mobile, un manufatto in cui deporre l’idea di utile e di armonioso . L’interno di una casa un sogno di potere oppure di una eleganza e di una tranquillità che non esiste per le strade del mondo . La fotografia di Massimo Listri trasforma il reale con una partecipazione immaginifica e creatrice dell’Autore che trascende la fotografia in vera e propria arte creativa come le grandi foto, qui esposte, testimoniano ampiamente. Per questa sua capacità Vittorio Sgarbi ha definito Listri “ Il fotografo che inventa la bellezza”. Massimo Listri interviene dopo lo scatto fotografico in ritocchi di luci e di atmosfere che rendono ineguagliabile il suo trasognato modo di fotografare il reale . In questo artificio Listri raggiunge i livelli di eccellenza che sono più propri di uno scultore o di un pittore che di un fotografo . Questo è il capolavoro di Listri che nel suo mestiere ha maturato un percorso artistico che lo fa essere compagno di ventura di quel manipolo di eroi della bellezza che nelle diverse professioni , si sono conquistati fama e rispetto nel grigio mondo in cui purtroppo , oggi , viviamo .

Giovanni Pallanti
10 September 2009

Listri’s peana.

 

 

Massimo Listri la strada della fotografia la abbraccia giovanissimo, esordendo con una serie di straordinari ritratti in bianco e nero che raccontano alcune delle figure nodali del Novecento. Grandi vecchi della cultura e della scienza, delle arti e della letteratura come Montale, René Clair, Carlo Bo, l’ereticale sensibilità di Pier Paolo Pasolini, un’immensa arca di sapere quale Federico Zeri, sir Harold Acton, estremo testimone di un mondo perduto, quello angloamericano annidato dalla seconda metà dell’Ottocento nelle ville e sui colli toscani, e dei suoi sofisticati rituali. Con loro, Massimo ha trascorso lunghi pomeriggi e condiviso un fondamentale percorso di scambio e formazione. Tutti conoscono la formidabile capacità di Listri nello svelare come per sortilegio un mondo decorativo talvolta da decenni abbandonato all’oblio, nel far emergere in piena luce la bellezza appannata dalla polvere del tempo, sia essa quella d’un giardino negletto oppure la vita ancora vibrante che si cela in un’antica tela, in un prezioso objet de vertu. Altrettanto nota la sua capacità di registrare il senso più alto dell’architettura, l’ermeneutica di un interno. Per anni egli ha esplorato Wunderkammer manieriste e barocche rinserrate nel chiuso di conventi e freddi palazzi mitteleuropei, si è immerso nell’oro e marocchino rosso delle grandi biblioteche rocaille, ha scavato in archivi e tesori eccelesiastici, nel fasto mediceo delle pietre dure, tra l’ambra, l’avorio e gli argenti dei principi del nord. Un vero itinerario di iniziazione, l’obiettivo che non smette di narrare un’appassionante composita epica per immagini. Accumulo di sensazioni e riflessi fatati, una vera sfida a limitazioni e cronologie. Trent’anni di lavoro e oltre 45 volumi. Intanto Listri, il fotografo-demiurgo che, come ebbe a definirlo Vittorio Sgarbi, “ non cattura la bellezza, la crea…”si cimenta in un’ulteriore avventura. Dal suo knowledge nel sentire l’anima più profonda e astratta di un interno, ecco nascere grandi immagini trattate con effetti cromatici talvolta surreali ed estranianti. Enfilades di stanze vuote abitate dal liquido ricordo d’un passato fastoso, gallerie gremite di specchi e sculture che si librano d’un tratto metafisiche, incorporee in un azzurro freddo spazio virtuale, spiazzanti e sensuali close-up di volti di sculture neoclassiche. Il sogno archeologico schinkeliano riprende forma in una texture possente di colonne doriche rastremate. Sullo sfondo, lontano, un cielo di cobalto mantegnesco, corso da cirri candidi. Friabili intonaci biscottati dai secoli respirano nuove linfe, ironici memento mori di dolcezza quasi domestica. Archiacute strutture proto-industriali si trasfigurano in una grafia nervosa, in un ologramma à la Tim Burton, gotico e Hokusai, il segno impromptu di Hans Hartung che si sovrappone alla visionarietà ogivale di Pugin. Le biblioteche sei-settecentesche, un grande amore di Listri, collezionista di libri antichi, sono percorse da presenze fantasmatiche ed inquietanti, captano quella caparbia lezione della favola che diviene vittoria sulla legge di necessità. “Sola garanzia del mistero è l’irripetibile nitore dell’oggetto reale nel quale momentaneamente uno spirito prese dimora.”. Così avverte Cristina Campo dalle pagine de Gli imperdonabili. Un messaggio chiarissimo e sibillino, che Massimo Listri ha saputo far suo.

 

 

 

Cesare Cunaccia  

Cesare Cunaccia
20 May 2008

     Gentile Listri,

     ho rivisto la Sua mostra. Che Lei sia bravo si sa, che sia elegante anche, ma nessuno dei due aggettivi, per essere come sono relativi, Le rende giustizia.

     Lei è uno straordinario scenografo, disponendo di solito di una quantità di materiali visivi che Lei compone o ric-compone sapientemente attraverso cambiamenti, anche minimi, di prospettiva o di luce, di intonazione direi. Questi quadri sebbene siano destinati a un teatro dove non compaiono attori, non mancano mai dalla presenza di chi è uscito di scena o di chi sta per entrarvi. E' il suo mestiere.

     In questa mostra invece c'è molto di più, perchè, l'insieme dei suoi lavori testimonia, senza aggettivi, la qualità dell'assenza. E' vero che al solito le scene sono deserte, la differenza però è che qui, in queste apparizioni, nessuno aspetta nessuno. Siamo alla temperatura zero del 'modeno' Inteso, quando è autentico, nella sua rigorosa purezza.

     Mi spiego: Il Castello di Aglié, il Palazzo Reale di Stoccolma, il Castello di Rivoli, la Reggia di Caserta, sono i punti più alti del discorso che Lei propone. Al contrario il cannoncino dell'Archivio delle Indie di Siviglia, la seduta ottagonale a Pierrefond, la lanterna accesa che appare sotto la Scala nel Palazzo Reale di Stoccolma sono indizi, che inducono a una diversa misura quella dell'attesa. Qualcuno ha azionato il cannone, qualcuno si è seduto, qualcuno ha acceso la lanterna. L'immobilità si trasforma nel moto dell'accadimento passato o futuro. Fuori tema appaiono invece la favolosa versione notturna Versailles/Manhattan, l'Atelier di scandalosa (anche se gratificante) memoria impressionista.

     Non si discute è ovvio delle qualità fotografiche, ma del passaggio a una diversa scala di valori. Uno scarto che è il discrimine tra un mestiere nobile e l'arte. Senza aggettivi appunto, né lettere maiuscole.

     Si abbia i miei saluti e buon lavoro,

                                                                        Suo Roberto Coppini

Roberto Coppini
06 October 2007

Così il suo sguardo ha iniziato a cercare luoghi e simmetrie senza particolare importanza monumentale. Un muro, una stanza, una geometria il cui archetipo, la cui radice di memoria fosse piuttosto dentro di lui che nella storia esterna...

Vittorio Sgarbi
12 July 2003

UN LUMICINO PICCINO PICCINO: CASA LISTRI A FIRENZE

 

Io e gli amici, in tre giorni, abbiamo visitato 46 chiese, 360 dipinti, 200 sculture, beccato 92 ragazze, la favorita ha fatto 80 scene di gelosia (12 ne ha lasciate perdere, per sfinimento), quindi va da sé che tempo per mangiare e dormire ce n'è stato poco, anzi niente affatto. Piove.

Vi sono momenti in cui è difficile tenere alto il morale della truppa, perfino per Sgarbi.

Ma... cos'è quel lumicino lontano lontano? Casa Listri!

E casa Listri si spalanca, rosso antro d'oro, colmo di libri d'arte e CD di musica classica, 3 metri cubi di freezer sempre colmo, mille trecento cravatte – scatole di sigari e canditi, cani di razza, le rose di Marianna pesanti e profumate, marmellate, e un'aria d'autunno in campagna con la famiglia, come c'è sempre a casa mia. E questo è casa Listri:

UN AVAMPOSTO DI RO,

UN COVO FRA ROMA E L'EMILIA

 

Barbara Alberti
01 May 1994

“... Ma alcuni di noi conoscono imprevedibili privilegi. A Firenze il privilegio si chiama Listri. Massimo Listri, il fotografo che non documenta ma inventa la bellezza.

Ma non è del valore di Listri che vogliamo parlare, bensì della sua casa. Anzi, meglio, dell'apertura della sua casa. Ci sono case aperte e case chiuse; questo non dipende dalla loro visibilità, ma dal carattere del loro proprietario. Le case aperte non hanno orario; quelle chiuse, anche se pubbliche, sì. Le regole rendono affannosa e complicata la vita, anche quando cercano di organizzarla o semplificarla. Perché non possiamo vedere la Madonna dal collo lungo del Parmigianino a mezzanotte e venti? E' prigioniera o non ci vuole ricevere? No. E' visibile soltanto dalle nove alle quattordici, per tutti. Non è un'ingiustizia, è una proibizione, un impedimento alla bellezza. E non è certo un privilegio esserne gli indesiderosi e indesiderati ( se non indesiderabili) custodi.

Così, a mezzanotte e venticinque, sulla strada per Firenze, telefoniamo a Listri sperando che la Madonna dal collo lungo sia magari ospite da lui, in libera uscita dopo l'orario di lavoro negli Uffizi. Ma sappiamo in ogni caso che troveremo novità: nuovi libri ad arricchire la vasta biblioteca ben illuminata, nuove lampade uscite dalla mostruosa fantasia di Marianna, nuovi marmi, salami di porfido, mosaici romani, vetri e curiosità per un ideale Wunderkammer. Intanto la casa si espande: cadono pareti, si scavano sotterranei, si abbattono altane provvisorie, si recuperano volte di soffitti per contenere adeguatamente i mille ritrovamenti, testimoni dell'intelligenza dell'uomo. Nella notte, avvantaggiato dalla libertà senza prezzo di Listri, ritrovo il più inutile tra gli oggetti del mio desiderio: un reliquiario dorato dalle dimensioni, forse per me attraenti, di un televisore. Due palme scolpite con funzione simbolica e di cornice, rendono la scatola lussuosa e capricciosa nel suo fasto barocco. E siccome si tratta di una cosa inutile e ingombrante, quanto io la voglio, altrettanto Listri non vuole cederla, per lo stesso e simmetrico motivo che è poi quello che la rende preziosa..”

Vittorio Sgarbi
01 May 1991